Nonostante Alcoa, in Italia la cogestione è ancora lontana

Allora ci siamo, sbarca anche nell’industria italiana la cogestione, la mitica Mitbestimmung, e con essa il modello tedesco di relazioni industriali?

L’accordo raggiunto all’Alcoa per salvare lo stabilimento sardo ha fatto subito gridare alla svolta, con entusiasmo da parte del ministro Carlo Calenda, con il tradizionale benaltrismo da parte della Cgil. I lavoratori avranno una quota del 5% della nuova società, post acquisizione da parte della svizzera Sider Alloys, e un posto in Consiglio di sorveglianza. “Sarà il primo caso — ha aggiunto Calenda — in cui i lavoratori partecipano alla gestione dell’azienda e se lo sono ampiamente meritato”. Non tutto è già definito e il prossimo appuntamento, è fissato per il 3 maggio.

"L’idea è quantomeno problematica”, ha replicato Susanna Camusso attraverso il suo portavoce . “Diverso il discorso per il consiglio di sorveglianza (se con questo nome non si intende il consiglio di amministrazione). Sarebbe un primo e importante passo verso l’applicazione dell’art. 46 della Costituzione” il quale recita: “Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”.

Ben più disponibile la Cisl che da sempre ha cercato di aprire uno spiraglio alla cogestione, sia come partecipazione agli utili legando salari e produttività aziendale, sia come condivisione e controllo delle scelte strategiche in un consiglio di sorveglianza che affianchi i rappresentanti degli azionisti nel consiglio di amministrazione.

Dal 2004 è possibile creare anche in Italia un organismo parallelo nel quale siano rappresentati i lavoratori non solo attraverso i sindacati, ma nessuna impresa manifatturiera lo ha adottato. Un tentativo era stato fatto da parte della Fim Cisl alla Fiat durante il grande scontro sulla ristrutturazione di Pomigliano d’Arco, ma era naufragato: intanto perché Sergio Marchionne non ci crede e segue un sistema all’americana, e poi perché si è scontrato contro una serie di difficoltà anche giuridiche.

Certo è che per applicare la cogestione bisogna avere leggi sul lavoro diverse, ma soprattutto una cultura industriale che tende a superare il conflitto, considerato solo l’ultima ratio. Così è in tutto il nord Europa dove, come in Svezia, lo sciopero prima di essere dichiarato deve avere l’approvazione con un referendum di tutti i lavoratori interessati.

Il modello duale, consiglio di sorveglianza più cda, è stato applicato nell’ultimo decennio in molte banche, ma non ha funzionato e si è fatto quasi ovunque marcia indietro.
Tuttavia, difficoltà a parte, la soluzione Alcoa è un tentativo di affrontare in modo nuovo non solo le crisi aziendali, ma la più generale crisi delle relazioni industriali. Che il vecchio sistema non funziona più lo riconosce anche la Cgil ed è vero che nessuno possiede una soluzione, ma arroccarsi è la scelta peggiore.

Il conflitto

Il paradigma conflittuale fa ancora furore come residuo del primo Novecento in Italia e in Francia. Si è esaurito il modello giapponese che punta sulla redistribuzione consensuale delle mansioni a livello di impianto. Non dà più grandi frutti nemmeno la contrattualizzazione centralizzata con accordi nazionali validi per tutti, anche se in Italia si sta tentando di ripristinarla a scapito della contrattazione aziendale, anche perché si è logorata la rappresentatività delle confederazioni.

Secondo Pietro Ichino, il recente accordo tra sindacati e Confindustria prefigura una vera e propria restaurazione: “Il Patto sancisce formalmente la fine dell’opposizione della Cgil al sistema di indicizzazione basato sull’Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato, al netto dei prezzi dell’energia importata), concordato da Cisl, Uil e Confindustria da quasi un decennio”, ha scritto su Lavoce.info. “In cambio, però, la Cgil ottiene un sostanziale rafforzamento della funzione del contratto collettivo nazionale”.

Mentre l’accordo interconfederale del 2011 riconosceva alla contrattazione aziendale il potere di derogare praticamente su tutto, salvi i minimi salariali, ora invece si torna ad affidare al contratto nazionale stesso la funzione di delimitare la possibilità di deroga, anche in modo più restrittivo.

Sull’onda del successo elettorale del Movimento 5 Stelle e della Lega si vedono già molte altre marce indietro, come il ripristino dell’articolo 18 all’Acea, la municipalizzata del comune di Roma a trazione pentastellata.

I grillini tendono a conquistare spazio e ad attirare almeno una parte di quei sindacati che un tempo avevano giurato di voler demolire, quindi danno spago alle spinte corporative e a ogni tentativo di ripristinare poteri di veto anacronistici.
La Lega, un tempo nemica del sindacalismo confederale (la famigerata “trimurti” Cgil,Cisl, Uil), sta cambiando atteggiamento dopo la messe di consensi ottenuti da quella *base operaia che prima gravitava a sinistra.

Dunque, non tira aria di esperimenti innovativi. Al contrario, sarebbe necessario un ripensamento più generale sui rapporti tra lavoratori e imprese, sul ruolo dei sindacati, sui loro comportamenti che non possono essere solo antagonisti. Altrimenti avremo davanti una stagione davvero rovente nel mondo del lavoro. Tra sindacati confederali divisi tra loro, sindacati autonomi e cobas in cerca di spazio, M5S e Lega acchiappa-tutti per aumentare i consensi, il modello tedesco sembra davvero un’utopia.

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