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Che cosa è lo storytelling

Narrazione o storytelling, dipende dalla lingua che preferite. L’ultimo a citarla è stato Matteo Renzi: “La prima misura economica da adottare? Cambiare lo storytelling dell’Italia”, ha detto al Festival dell’economia di Trento. È una priorità assoluta, a sentire il premier: “Se non incidiamo anche sulla narrazione non possiamo farcela”, ha detto alla platea di economisti. Sembra una frase uscita dalla bocca di Nichi Vendola, che sulla narrazione applicata alla politica ha costruito un’intera carriera. Ma cosa vuol dire Renzi? Panorama.it l’ha chiesto ad Andrea Fontana, fondatore dell’agenzia Storyfactory e professore di storytelling all’Università di Pavia e in altri istituti.

Cos’è lo storytelling?
E’ una scienza – molto evoluta all’estero, tanto che si parla di scienze delle narrazione (applicate al marketing, alla politica, alla sociologia, …etc. persino alla medicina). Lo scopo di chi usa lo storytelling e di chi costruisce narrative, cioè sistemi di senso – che diventano racconti su di sé, sui propri marchi o i propri prodotti – è istaurare una relazione profonda con il proprio pubblico: non lo si vuole solo informare, lo si vuole coinvolgere attivamente. Prima Berlusconi, poi Grillo e oggi Renzi, non hanno solo raccontato visioni politiche ma hanno anche richiesto (con modi diversi) una attivazione e una mobilitazione ai loro elettori. Riconoscimento e risonanza: sono termini chiave per lo storytelling.

Negli ultimi anni, ciclicamente, qualcuno riscopre la parola “storytelling” e la ripropone come una novità. È solo una moda?
I racconti sono sempre esistiti, anche quelli politici. Ma oggi un leader politico vi si deve dedicare con sistematicità senza precedenti: deve presidiare contenuti, processi, elettori, strumenti e far circolare coerenza tra il suo mondo di valori e quello dei suoi pubblici. Possiamo dire che lo storytelling, che da sempre esiste in modo informale, è diventato una disciplina scientifica e sistemica che è indispensabile per chiunque voglia comunicare a un pubblico. È un nuovo paradigma comunicazionale e in questo senso, sì, è anche un po’ un tendenza e una moda.

Perché usarlo anche in politica?
Perché oggi il cittadino ha bisogno di un contatto reale e profondo con i suoi rappresentanti e lo storytelling aiuta a costruire questo “ponte”, questa connessione, in cui il politico genera una narrativa (un mondo di significato valoriale e personale) e il cittadino elettore si riconosce e la realizza nella sua vita (o per lo meno dovrebbe).

Ma un politico non farebbe meglio a concentrarsi sui fatti?
Certo. Solo che un “fatto” dice poco, senza il racconto che lo veicola. Possiamo dare “80 euro” ai dipendenti aziendali o “creare 1 milione di nuovi posti di lavoro”, e allora? Questi “fatti” di per sé non vogliono dire nulla se non c’è una motivazione e una rappresentazione politica. Senza una motivazione e una visione, che mi si imprimono nel cuore e nello stomaco, il fatto rimane privo di significato o, peggio, può essere interpretato a uso e consumo di chi se ne impossessa.

L’autore francese Salmon Christian ha scritto che lo storytelling “incolla sulla realtà racconti artificiali”. Non c’è il rischio che sia un bel nome per mascherare la vecchia arte dell’imbroglio?
Salmon ha messo in evidenza i pericoli dell’eccesso di una disciplina. In realtà, lo storytelling fa l’esatto contrario, quando ben utilizzato: chiama in causa i lettori-elettori, li incita alla partecipazione, non appiccica su di essi una narrazione. C’è un altro aspetto da considerare: il fatto che un leader politico si racconti lo rende ancora più responsabile. Non puoi raccontarmi qualcosa e poi scomparire. Il racconto ti costringe a mantenere una tua promessa, altrimenti ci disamoriamo e ci sentiamo traditi, immediatamente.  Per cui storytelling vuol dire richiesta di coerenza, non artificiosità.

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