Il caro gasolio fa affondare la Pesca italiana

Il caro energia affonda la flotta dei pescherecci italiani, che da anni deve fare i conti con margini sempre più risicati, che stanno letteralmente mettendo in ginocchio un settore che dà lavoro ad oltre 26 mila addetti. I prezzi del carburanti che sono schizzati all'insù a causa del conflitto in Ucraina, hanno dato forse il colpo di grazia ad un settore vitale e di tradizione storica dell’economia italiana. Il prezzo del gasolio, che nel giro di un anno è triplicato, passando da 0,40 euro al litro alle attuali 1,20 euro al litro per gli operatori marittimi, costringe le barche a navigare in perdita o a tagliare le uscite, secondo la denuncia di Coldiretti Impresapesca.“ Se lei considera che un peschereccio che fa pesca a strascico, che rappresenta circa il 50% del pescato italiano, sta in mare 4 giorni, il consumo va dagli 800 litri al giorno ai 1500/ 1700 dei pescherecci più grandi con il gasolio a 1,2 euro vuol dire un costo dai 900 euro ai circa 1600 euro al giorno solo di carburante” dice Tonino Giardini direttore di Impresa pesca, che lamenta come l’export copra ormai oltre l’80% del pesce consumato in Italia ( con un aumento del 15% circa rispetto all’anno precedente). Questo perché soprattutto la quantità del pescato italiano continua a diminuire (230’000 tonnellate nel 2010, 177’000 tonnellate nel 2019), ed il consumo cresce ( attualmente circa 29 Kg procapite all anno)

La flotta di pescherecci italiani continua a calare malgrado la lunga tradizione del nostro paese nel settore. Negli ultimi 15 anni un terzo dei pescherecci del nostro paese è stato dismesso, circa 12000 sono quelli rimasti a solcare i mari sempre più tempestosi, ma non tanto a causa del clima ma dalle difficoltà crescenti sia sotto l’aspetto economico che sotto quello della sicurezza. I casi di scontri veri e propri con pescherecci tunisini e libici al largo delle coste siciliane sono più frequenti. Ultimo in ordine di tempi quello dell’equipaggio del peschereccio di Mazaro del Vallo, fermato al largo di Bengasi a settembre del 2021 e tenuto in ostaggio dai libici per oltre 100 giorni. Il lavoro del pescatore come in una riedizione del capolavoro di verga “ i Malavoglia” sembra tutto sommato come essere rimasto a quel periodo storico, malgrado tutto sia cambiato ed evoluto. La pesca viene fatta in mare aperto con mezzi moderni e strumenti in gradi di pescare fino a profondità impensabili per i nostri vetusti pescherecci, che rischiano di faticare a restare a galla, non solo in senso figurato, sarebbe forse il caso di dire. Siamo ormai scivolati al 50° posto nella classifica del pescato mondiale. Secondo i dati dell’ultimo rapporto della Fao aggiornato al 2018, infatti, sui circa 179 milioni di tonnellate pescate, in Italia ne sono state pescate solo 0,2 tonnellate. “ Se non si agisce in fretta per arginare questa moria di operatori del settore, tra quindici anni la pesca italiana non esisterà più e saremo l'unico paese al mondo circondato dal mare senza un industria ittica” afferma Giardini. I costi per il settore d’altra parte rappresentano ormai oltre l’80% del fatturato e le possibilità di alzare i prezzi sono limitate dalla concorrenza sleale dell’export da paesi come Cile, Senegal Guinea nassau, Turchia, Marocco dove il costo del lavoro si aggira intorno ai 3/400 euro contro i 2000 euro di quelli italiani. Per evitare il crack della flotta italiana occorre, secondo le principali associazioni di categoria e i sindacati che si sono incontrati con il sottosegretario all’agricoltura con delega alla pesca, Francesco Battistoni due giorni fa, prendere una serie di provvedimenti a partire dal pagamento immediato dei contributi Covid per le imprese di pesca, una misura che procede lentamente.

Nella legge di bilancio è stato previsto l’avvio del versamento dell’aliquota dell’1,5% da parte delle imprese da gennaio 2022, ma ad oggi non vi è la possibilità di un utilizzo della misura fino all’emanazione delle norme applicative. Per quanto riguarda gli sgravi contributivi, durante l’incontro con il sottosegretario si è chiesto di passare dall’attuale aliquota del 44,32% ad una percentuale maggiore pari al 70% riportando le aliquote al livello dell’anno 2000. Ma anche sulla situazione dei giorni di fermo pesca e sui confini marittimi i marittimi italiani chiedono maggiori tutele. Nel 2019 il senatore di Fdi Giovanni Battista Fazzolari ha presentato una interpellanza urgente al ministro Di Maio, per chiedere immediato revisione del cosiddetto accordo di Caen tra Francia ed Italia, firmato dall’allora ministro degli esteri italiano Paolo Gentiloni e quello francese Laurent Fabius, che allargava i confini nazionali marittimi della Francia a scapito di quelli italiani tra le coste di Ventimiglia e Mentone. I pescatori italiani lamentavano soprattutto il fatto che la Francia avesse messo una sorta di “esclusiva di sfruttamento della zona della “fossa del cimitero”, dove si riproducono i pregiatissimi gamberoni rossi ( quelli venduti in pescheria fino a 40 euro al chilo). Malgrado l'accordo non sia mai stato ratificato dal Parlamento italiano, la Francia lo applica senza problemi, come se lo fosse stato. Ma ha solo seguito le regole stabilite a Monetgo Bay nel 1982.

Secondo gli accoedi, infatti, sottoscritti, se un paese non ratifica un accordo, e non invia una dichiarazione di opposizione, l’accordo si considera accettato: esattamente ciò che ha legalmente e giustamente fatto la Francia, visto che né il governo Renzi, né i governi Conte hanno mai completato l'iter. Nel gennaio del 2016 il peschereccio ligure “Mina” viene fermato dalla gendarmeria marittima francese con l’accusa di praticare pesca al gambero rosso in acque EEZ francesi, e il governo italiano, ammettendo il proprio errore, ha pagato una multa di 8300 euro per liberare il peschereccio genovese. Insomma una lenta agonia che il caro carburante sta solo accelerando.

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