Carmen Kass: la moda, gli scacchi, i sogni elettrici di una top model

Photography Katja Rahlwes / styling Tom Van Dorpe

Abito lamé in seta e poliestere Lanvin / clutch in pelle scamosciata dégradé Jimmy Choo


 Photography Katja Rahlwes / styling Tom Van Dorpe

Borsa in nappa opaca e pelle specchiata 3Jours Fendi


Photography Katja Rahlwes / styling Tom Van Dorpe

Abito in charmeuse di seta con stampa pois DOLCE&GABBANA borsa a cerchio in pelle di capra Maison Perrin. In tutto il servizio: décolletée in vernice Walter Steiger


«Mi chiamo Carmen perché mia madre sognava di viaggiare. E i nomi estoni li odiava tutti quanti: Maili, Bille, Luule... Sapevano di muffa. Le ricordavano che con l’Unione Sovietica non c’era modo di muoversi dal nostro piccolo paese sulle rive del Baltico. E scegliendo un nome esotico, almeno, le sembrava di portarsi un po’ di estero a casa. Tanto che con mio fratello aveva esagerato: Kutty, l’ha chiamato. Un nome preso da un antico dialetto persiano che significa “figlio del diavolo”, pescato in uno dei libri che studiava di notte, quando cercava di cambiar vita e farsi assumere come archivista in una biblioteca pubblica. Con mia sorella grande invece era stata più morbida e l’aveva chiamata Victoria, un po’ all’americana. Nomi poco comuni che andavano ad aggravare le prese in giro che già provocava il nostro cognome, Kass, che nella mia lingua significa gatto. Io sono nata il 14 settembre 1978 in un paesino nel sud dell’Estonia che si chiama Konepy. Letteralmente: il posticino della marijuana, o qualcosa di simile. Anche se di marijuana non ce n’era per nulla, figurati. Il regime sovietico avrebbe fatto radere al suolo la città, se l’avessero coltivata davvero…

Il racconto di Carmen Kass, continua sul numero 9 di Flair in edicola con Panorama da giovedì 20 febbraio.

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