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Antonio Scurati, 'Dal tragico all'osceno' - La recensione

Il sottoprodotto dell'immaginario collettivo è di cristallizzare un'epoca dentro i suoi paradigmi e cliché, a vari livelli di profondità. Se la letteratura funziona da sempre come una sorta di spia e quindi di antidoto a questo precipitato, qual è il suo ruolo oggi di fronte al predominio della cultura visuale generata dai media elettronici? È la domanda a cui si propone di rispondere Antonio Scurati indagando il retroterra storico, letterario, fotografico, cinematografico, televisivo e sociopolitico dell'implacabile discesa verso l'esteriorità che ha subito il nostro modo di guardare: una discesa Dal tragico all'osceno.

Brillante e cupo, il saggio getta una luce sinistra sul nostro tempo, disorganico Truman Show globale in cui la civiltà della parola sembra arretrare inesorabilmente di fronte alla civiltà dell'immagine. La foto di copertina costituisce un assaggio eloquente del "regime scopico" che domina nel presente la narrazione della morte: un gruppo di ragazzi assiste distrattamente all'apocalisse newyorkese di là dalla baia. Realtà, spettacolo o spettacolo della realtà? La prevalenza dell'immaginario e la con-fusione tra il reale e la visione ha conferito alla storia un senso di ineluttabilità di cui si è impossessato il potere. Nel nostro secolo - dalla prima guerra del Golfo e poi sistematicamente dopo l'11 settembre - la mediatizzazione della guerra precede la sua realtà empirica. Quando realmente "accade", la guerra rischia di apparire come un deja vu di massa.

Lo spettacolo della violenza è così onnipresente che perfino l'arte ha finito per incorporarlo, all'inizio in maniera inconscia, poi neutralizzandolo attraverso uno slittamento verso la superficie del tabù archetipale, quello della morte. Lo dimostrano alcune icone fotografiche che Scurati ci guida a osservare con attenzione: il soldato di Don McCullin, vittima dello stress post traumatico ai tempi del Vietnam; le Torri Gemelle in fiamme, il "Vietnam della mia generazione"; la vecchia urlante, simulacro della guerra in Georgia del 2008, la cui posizione fetale ricorda gli scheletri di Pompei intrappolati dalla lava.

Mentre la nostra Europa, continua Scurati, si è proposta per mezzo secolo come un "guscio climatizzato autoimmune", come un'oasi illusoriamente "imbelle e satolla", l'ideale estetico della guerra è penetrato in profondità nel suo immaginario. Aggredita e scopertasi vulnerabile, oggi l'Europa è vittima di un perverso meccanismo di de-negazione: gli orrori reali e le grandi tragedie umanitarie del nostro tempo, "rimosse dalla coscienza collettiva perché oscurate dai mezzi di informazione", vengono fruiti in maniera filtrata - cioè addomesticata - non solo attraverso lo schermo della Tv o dello smartphone ma anche tramite la fiction o faction, ambiguo ibrido dove verità e finzione sono programmaticamente compromesse.

L'etica e l'impegno civile da sempre suggeriscono agli scrittori e agli artisti un'interpretazione critica dell'immaginario, riservando al romanzo una funzione riparatrice della narrazione umana. Funzione che oggi sembra venir meno in una letteratura spesso "complice del proprio disgusto", spiega Scurati analizzando Les Bienveillantes, romanzo scandalo di Jonathan Littell pubblicato in Italia nel 2007 con il titolo Le benevole. Scivolando dalla violenza della storia a quella della cronaca, la struttura voyeuristica del romanzo storico contemporaneo attirerebbe il lettore verso la posizione tutta esteriore dello spettatore, che rischia di condividere con il carnefice la sua esteriorità rispetto alla vittima.

Vale per i nazisti del blockbuster di Steven SpielbergSchindler's List e per lo stesso romanzo di Littell, per i camorristi di Gomorra nel best seller di uno scrittore che si immerge fino al collo nella materia in cui rovista, vale per l'Acido solforico che nei romanzi di Amélie Nothomb contamina televisione-spazzatura e Olocausto, trasformando in show perfino la Shoah. Vale più in generale per la History of Violence, la Storia violenta che David Cronenberg ha elevato ad archetipo del cinema americano contemporaneo (e quindi dell'immaginario occidentale prevalente), intrappolato nel suo fondo oscuro di lotta mortale come matrice generativa di ogni storia.

Uccidere simbolicamente la morte è lo scopo supremo del mistico anacoreta (per raggiungere il paradiso o spezzare il ciclo delle rinascite) ma anche dell'eroe tragico (per il quale l'unica immortalità è data dalla gloria terrena) e dell'artista romantico, che alla supremazia dell'arte sulla vita consegna la sua ansia di assoluto. La potenza del simbolo fin dai tempi di Omero ha reso cioè pensabile, e quindi rappresentabile, una realtà che ci turba o ci atterrisce o in generale che non sappiamo spiegare. Proprio attraverso la violenza esibita dalle immagini, il terrorismo mediatico procede oggi a uccidere la morte scardinando il suo ordine simbolico e lasciando l'Occidente in balia di una coscienza morale atrofizzata.

Come si racconta allora il presente quando non sembra esserci che quello? Come non farsi conniventi con la "nazificazione dello sguardo"? Come opporre la letteratura alla violenza? Qualcuno ci prova, dei narratori contemporanei, a smarcarsi da questa situazione. Scurati accenna appena al Nobile Principio che muove l'epica idealista di William T. Vollmann in Afghanistan Picture Show or, How I Saved The World, o all'umanesimo di Kurt Vonnegut come forma di militanza civile e intellettuale. Ma sarebbe interessante se ci proponesse magari una mappa per orientarci anche nel tunnel della narrativa italiana, prima che il tragico sia diventato completamente osceno.

Due scrittori fra gli altri, agli antipodi dal punto di vista stilistico e dei contenuti, hanno recentemente affrontato a viso aperto la questione, inoculando nel panorama della nostra cultura il seme di una riflessione scomoda ma ineludibile. Aldo Nove in Anteprima mondiale decostruisce la forma-romanzo in un puzzle di frammenti impazziti che convergono in un punto preciso: "L'Europa è un posto in cui si arriva morendo". Antiletterario, caustico, irriverente, sgradevole a tratti, il libro è lucidissimo nell'individuare il culmine della deriva nella fine dei tabù, perché "se da anni stiamo fingendo di giocare un gioco finito, prenderne atto è lo scandalo necessario".

Con un approccio poetico e militante, L'addio di Antonio Moresco inscena una parata dell'orrore dove spiccano l'assuefazione al male e la fantasia nichilista-allucinatoria di cancellare l'infanzia, azzerando con la nascita anche la morte. In entrambe le opere, al di là dell'intrinseca qualità letteraria, rimbomba l'eco del differenziale salvifico che l'arte rivendica fin dai tempi di Aristotele.

Antonio Scurati
Dal tragico all'osceno
Bompiani
267 pp., 13 euro

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