Con il caldo estremo i ghiacciai si sciolgono ed è un pessimo segnale anche per centinaia di località dello sci, in bilico tra vivere di neve artificiale – carissima – e chiudere. Alpi e Appennini sono costellati di funivie e ski-lift mantenuti da soldi pubblici o abbandonati. E ormai si costruiscono impianti sempre più in alto.
Lo chiamano il lamento del ghiacciaio. Sul Monte Bianco, lì dove vent’anni fa le guide alpine venivano a fare palestra di ghiaccio, ora si sente il rumore dell’acqua che scorre tra le rocce nude. Le nevi perenni delle Alpi stanno progressivamente lasciando il passo ad arbusti rinsecchiti, arsi dal sole. Le Prealpi e la catena appenninica sono disseminati di vecchi impianti di risalita, scheletri arugginiti, testimonianza del sogno impossibile di sciare a mille metri in piena rivoluzione climatica.
Maurizio D’Orefice, geologo dell’Ispra afferma che le riserve dei ghiacciai alpini sono sparite per oltre il 35 per cento. Già oggi 120 ghiacciai piccoli sono estinti mentre altri sotto i 3.500 metri se ne andranno in pochi decenni. A metà Ottocento la Marmolada aveva un ghiacciaio vasto 5 chilometri quadrati, nel 1960 era ridotto a 3, ora è meno di 2. Il ghiacciaio dei Forni tra Lombardia e Alto Adige nel 1860 misurava 18 chilometri quadrati, nel 1952 si era ritirato a 14 e adesso è di circa 11 chilometri quadri.
Lo scioglimento dura da oltre un secolo. Nel 2007 l’Ocse metteva in guardia con queste parole: «Le Alpi, torre d’acqua dell’Europa, sono particolarmente sensibili al cambiamento climatico. I modelli climatici prevedono la riduzione della neve a bassa altitudine e l’arretramento dei ghiacciai». Il climatologo Luca Mercalli ha stimato che, entro il 2050, il 25 per cento delle località dell’arco alpino sarà impraticabile agli sciatori e che si potranno sfruttare meno di 100 giornate di neve fresca all’anno. In mezzo secolo, la stagione si è già ridotta di 38 giorni e l’80 per cento delle piste dipende dalla neve artificiale.
A prezzi sempre più elevati perché il cambiamento climatico incide sui prezzi di energia e acqua. Innevare un chilometro di pista larga 50 metri con uno spessore di 40 centimetri costa dai 30 mila ai 40 mila euro. La cifra va raddoppiata considerando che un tracciato viene trattato due volte nella stagione. La grande incognita è l’impatto sul turismo della montagna. In Italia sono gosso modo 4 milioni i praticanti di sport invernali con un giro d’affari di oltre 11 miliardi di euro tra ospitalità, servizi allo sci e ristorazione, più o meno l’11 per cento del sistema turistico della Penisola. Gli impianti, circa duemila, generano un fatturato pari a 1,2 miliardi e contano 15 mila addetti.
Luigi Bertschy, assessore della Valle d’Aosta, una regione in cui l’industria della neve vale oltre 85 milioni di euro l’anno, è convinto che i nuovi impianti andrebbero progettati, se possibile, tra i 2 mila e i 3 mila metri. L’Istituto per lo studio della neve di Davos gli dà ragione: entro fine secolo si rischia di non poter sciare sotto i 1.200 metri e di farlo a stento sotto i 1.800. «Ormai l’innevamento artificiale è indispensabile in una moderna stazione sciistica» conferma Giovanni Brasso, presidente di Sestrieres Spa, società che gestisce una delle più grandi aree sciistiche delle Alpi europee. «All’estero si costruiscono prima gli impianti per la neve programmata e poi il resto della stazione». Ma l’innevamento artificiale è un lusso che non tutte le località in altitudine possono permettersi.
Il report di Legambiente Nevediversa 2022 traccia uno scenario desolante: sono 234 gli impianti dismessi, 54 in più dal 2021, 135 quelli temporaneamente chiusi (+22 dal 2020) e 149 che sopravvivono con forti iniezioni di denaro pubblico. Molte sono strutture a bassa quota dove da anni non nevica più. L’arco alpino è costellato di funivie e ski-lift abbandonati. In Lombardia, regione che conta il 41 per cento di superficie montuosa, sono 23 gli impianti chiusi definitivamente e 2 temporaneamente. Alcune installazioni sono ridotte a ruderi, come lo skilift sul Monte Poieto, dismesso negli anni Sessanta, la seggiovia sul Monte Arera, lo skilift sul Monte San Primo, fermo dal 2013. Il comprensorio di Montecampione, costruito a metà anni Settanta e dismesso nel 2010, versa in stato di degrado. Tra i casi più eclatanti, indicati da Legambiente, ci sono i resti di una funivia chiusa anni fa a Fedaia, Pian dei Fiacconi in Trentino, l’impianto a Verzegnis, in provincia di Udine, abbandonato dopo vari tentativi di assegnazione, una seggiovia a Staunies, a Cortina, dismessa nel 2016 e una a Fanano, in provincia di Modena, che non funziona per mancanza di revisione e di neve, ruderi di ski-lift e tre impianti in località Montecristo a L’Aquila, mentre è durata solo un anno la seggiovia sul Monte Mufara vicino a Palermo, costruita nel 2016 e chiusa nel 2017.
Accanto a questi casi di condizioni climatiche avverse, ci sono poi quelli di cattiva gestione. A Malga San Giorgio, in provincia di Verona, a quota 1.500-1.800 metri ci sono due seggiovie e 350 appartamenti, molti dei quali vuoti da decenni. Negli anni Duemila il presidente della società di gestione è stato colpito da interdittiva antimafia. Nonostante la scarsa neve fioccano i progetti di nuovi impianti o di ampliamento di quelli esistenti, circa 150 e alcuni a quote basse dove le precipitazioni nevose non sono garantite. C’è la situazione dei comprensori sciistici del Monte Catria e dei Monti Sibillini, nelle Marche, dove, afferma Legambiente, «c’è una sproporzione tra la rilevanza degli investimenti e la reale capacità degli impianti di generare economia».
L’Appennino marchigiano conta 10 stazioni sciistiche con 44 impianti di risalita e quasi 80 chilometri di piste. Nel report Nevediversa si sottolinea che sono piccole strutture, con limitati dislivelli sciabili e a basse quote, alcune chiuse dopo i terremoti, altre aperte per poche settimane l’anno o mai partite a causa del vento, come la funivia del Monte Bove in completo degrado. Tra i casi che l’associazione ambientalista definisce di «accanimento terapeutico» (149: + 46 dal 2020), cioè quegli impianti che sopravvivono con forti iniezioni di denaro pubblico, ci sono quelli di Bolbeno a Borgo Lares in provincia di Trento, a bassissima quota (tra 567-663 metri) per i quali sono stanziati 4 milioni di euro; in Veneto a Kaberlaba (Asiago), saranno costruiti impianti tra mille e 1.150 metri; a Corno alle Scale, sul Monte Cimone in provincia di Bologna, è previsto un finanziamento di 20 milioni di euro a fondo perduto per impianti aperti solo nelle festività, nei fine settimana e con innevamento artificiale. Ma Valeria Ghezzi, presidente dell’Anef – Associazione nazionale esercenti funiviari – ribatte a Legambiente: «Bolbeno è un campo scuola che va benissimo e ad Asiago si è sempre sciato».
Poi avverte: «Attenzioni a dire che il surriscaldamento globale segnerà la fine dell’economia della neve. La chiusura degli impianti tra mille e 1.200 metri è fisiologica ma a quote più alte gli impianti sono attrezzati per innevare ottimizzando i consumi di acqua. Lo scorso inverno, sia pure con poca neve e le restrizioni Covid, abbiamo avuto una stagione superiore alle aspettative. Anche gli Appennini sono andati bene. Il turismo invernale è vivo e porta ricchezza a tutta la comunità locale, per vivere e rimanere in montagna. Il recente disastro della Marmolada è la conferma che dove non c’è l’uomo, la montagna vive con le sue regole». E sull’innevamento artificiale lancia il sasso. «Serve una partecipazione pubblica alla spesa. Così si sostiene l’economia di un territorio».
Giuseppe Cuc, presidente del Collegio nazionale dei maestri di sci, una realtà di 15 mila professionisti raggruppati in 380 scuole, mette il dito nella piaga: «In alcuni anni la mancanza di neve ci è costata il 20 per cento di ricavi in meno». L’innevamento artificiale è una polizza sulla vita che costa sempre di più ma, come si può parafrasare, «No neve, No business».