Gli inizi da impiegato alla Findus, l’amore per la moglie (che dura da mezzo secolo), il significato di amicizia vera e il rapporto con il padre (morto quando aveva 12 anni). Il regista italiano di film culto si confessa con Panorama e anticipa il suo ultimo film generazionale e autobiografico: La quattordicesima domenica del tempo ordinario.
«Pochi giorni fa ero solo a casa e ho messo sul giradischi l’album di un concerto celebrativo di Bing Crosby registrato dal vivo al Palladium di Londra. A un certo punto quando entra in scena si sente un applauso fragoroso. Quel momento è così commovente che a volte mi approprio di quell’applauso, lo ascolto e faccio finta che sia per me, ringraziando il pubblico». Pupi Avati,, 84 anni, una carriera piena di successi e film di culto come Regalo di Natale, La casa dalle finestre che ridono, Una gita scolastica e Il cuore altrove, confessa a Panorama di fare proprio come il protagonista del suo nuovo film, La quattordicesima domenica del tempo ordinario, in arrivo al cinema il 4 maggio: Marzio (Gabriele Lavia) si illude che i finti applausi di un disco siano per lui, perché avrebbe voluto essere un cantautore di successo, ma si arrabatta con comparsate nelle tv locali. Il giorno del funerale del suo amico Samuele (Massimo Lopez), Marzio rincontra la propria ex moglie Sandra (Edwige Fenech), anche lei invecchiata col rimpianto di non essere diventata un’indossatrice di successo. La pellicola racconta così la storia di quando i tre (interpretati da Lodo Guenzi, Nick Russo e Camilla Ciraolo) erano giovani e pieni di speranze, oltre ad approfondire i motivi per cui il matrimonio tra Marzio e Sandra è andato in rovina. «Io ho bisogno di illudermi che quegli applausi siano per me» dice Avati nonostante i tanti riconoscimenti in carriera, «perché ogni nuovo film per me è come se fosse la prima volta, un esame in cui mi gioco tutta la carriera. Faccio il regista perché amo il cinema alla follia, ma quando vado sul set spesso vorrei non girare il film. Invidio le persone normali che non hanno ogni volta il problema di confrontarsi con successo e incassi».
Quanto è autobiografico questo lavoro?
Tanto, nel senso che molte delle cose che si vedono le ho vissute in prima persona. A cominciare dal chiosco di gelati del signor Romoli, che suonava la batteria con le mani. È proprio a quei tavolini che con i miei amici abbiamo immaginato le meravigliose e grandissime cazzate che ci attendevano.
La più grossa?
Sicuramente quella di formare una jazz band che, culturalmente parlando, mi avrebbe portato più lontano da Bologna. Il jazz era distante dalla musica che andava per la maggiore nel dopoguerra. E in quello c’è la mia esperienza nel fallimento, perché ancora oggi se mi chiedono che mestiere faccio dico che sono un musicista fallito.
Il suo matrimonio però, a differenza di Marzio e Sandra, resiste.
Dura da 56 anni, nonostanti i litigi, mentre i protagonisti si separano e si ritrovano 37 anni dopo. Entrambi hanno sognato molto, si aspettavano grandi traguardi e non hanno raccolto nulla. Anche se la mia storia personale è diversa, la trama risponde a considerazioni che si fanno alla mia età: il fatto di ritrovarsi deriva dalla constatazione che c’è una enorme differenza nell’affrontare la vecchiaia da soli o con qualcuno al tuo fianco. Soprattutto se questa persona ti conosce bene. Io sono grato di avere mia moglie, se non ci fosse sarei disperato.
Tra i problemi di Marzio e Sandra c’è anche la gelosia di lui. Quell’elemento è autobiografico?
Sono stato gelosissimo e ho fatto fare tante brutte figure a mia moglie, anche se non ho mai menato nessuno. Sono stato fortunato ad avere una donna molto bella, ma quando ero giovane il corteggiamento degli altri era serrato. A Bologna quando vedevano una bella ragazza ci provavano tutti.
Marzio tenta la via dell’arte, Samuele sceglie il posto sicuro in banca. Lei come ha vissuto questo bivio con cui si confrontano in molti?
Conosco bene il dilemma, visto che ho lavorato per quattro anni alla Findus. Però poi ho deciso di mollare l’impiego sicuro per tentare di fare il regista. E mi sono messo tutti contro, perché i miei primi due film sessantottini non incassarono una lira. E la critica, che in provincia è spietata, mi fece a pezzi. Pensavano fossi un fallito, per questo sono fuggito da Bologna. Ringrazio solo che mia madre e mia moglie non mi abbiano ostacolato.
Nel film non c’è una madre ma il padre di Marzio, che gli appare in sogno…
È il mio modo di esprimere la mancanza per mio padre, morto a 42 anni quando io ne avevo 12. Era bellissimo, elegantissimo, simpaticissimo e conquistava le donne facendole ridere, mentre
io ero timido, bruttino, non sportivo, non simpatico. Il suo opposto. Sono convinto che fosse deluso da me. Ma quando poi ho fatto cinema, mi sarebbe piaciuto parlargli e sapere cosa ne pensava. Il dialogo tra maschi è sempre complicato.
Pensa che avrebbe approvato la sua scelta d’artista?
Era un artistoide, un collezionista di quadri, ma non so che avrebbe detto quando ho mollato il posto fisso, perché fu un’oggettiva follia.
Il film riflette sull’amicizia vera. Chi sono stati i suoi amici?
Sono stati i ragazzi frequentati negli anni della giovinezza, prima che arrivasse l’amore. L’amicizia l’ho praticata in modo totalizzante e la reputo un sentimento fondamentale perché ti permette di accedere a un livello di confidenza che non è permesso con la tua compagna, con cui non puoi mai essere sincero fino in fondo, perché devi mantenere un margine di finta sicurezza. Io sono stato me stesso fino in fondo solo col mio migliore amico, che si chiamava Antonio Foresti detto Cicci. Purtroppo se n’è andati due anni fa.
Ha mai tradito gli amici o è stato tradito, come accade nel film?
Certo, anche se quando capita è spiacevole e spesso non ci si parla più trovo che, se si recupera, sia un passaggio indispensabile per rendere il rapporto ancora più solido. Ecco io spero che guardando questo film le persone che mi conoscono meglio sappiano leggere il mio desiderio di fare pace con loro, come accadeva quando giocavi in cortile da ragazzino, all’imbrunire tua madre ti chiamava dalla finestra e prima di salire a casa stringevi la mano al compagno di giochi con cui avevi litigato.
Questo film è malinconico. Che rapporto ha con la nostalgia?
Nella vita contadina la nostalgia si chiama «scollinamento»: avviene quando uno dei sensi ti abbandona e ti rendi conto che sei più concentrato sul passato che sul futuro. Io non considero questo il mio ultimo film, ne vorrei girare ancora qualcun altro. E non provo nostalgia.
Perché?
Perché ho sempre cercato di tenere in vita il quattordicenne che è in me.
