Il governo ha fatto grande vanto delle deroghe al Codice degli Appalti messe in pratica con il decreto Semplificazioni. Le nuove regole prevedono possibilità di affidamenti diretti per prestazioni inferiori ai 150.000 euro e con procedura negoziata, senza bando e convocando un numero di operatori variabile sulla base dell’importo complessivo, per tutti gli appalti fino alla soglia comunitaria (stabilita in 5,3 milioni di euro per i lavori pubblici). Questa norma, falsamente semplificatrice, evidenzia un modo di ragionare della politica e dell’amministrazione pubblica italiana che sintetizza tutti i problemi degli ultimi anni.
Sotto la pressione dell’antipolitica e per ottemperare alle direttive europee, nel 2016 il governo Renzi ha licenziato un nuovo codice appalti. Un codice nato male che, invece di limitarsi a riportare direttamente la direttiva nella legislazione nazionale come hanno fatto gli altri paesi, ha scelto di complicare di molto la normativa inserendo un’infinità di regole penali e di inediti strumenti giuridici. Con la complicità dell’Anac e dell’immarcescibile allarme corruzione imbracciato dai nuovi populisti e dalla vecchia sinistra, le regole sugli appalti del 2016 hanno reso infernale la vita di imprese e amministrazioni. Come se non bastasse, i governi Renzi e Gentiloni hanno necessitato di oltre due anni per produrre gli innumerevoli decreti attuativi richiesti dal Codice. Per lunghissimo tempo, insomma, si è operato nell’incertezza. Poi, con il governo gialloblù, sono iniziate le sospensioni del troppo farraginoso Codice, che oggi viene derogato per almeno un anno.
La vicenda è assai utile per comprendere come funzionano le cose in Italia: la sfiducia nella politica e lo spettro della corruzione, argomento politicamente sempre efficace nel nostro paese dopo Tangentopoli, complicano le norme; l’incertezza del diritto produce paura negli operatori e nelle amministrazioni locali; i dirigenti pubblici si rifiutano di firmare i bandi e i professionisti di assumere incarichi da commissari. Ci rimettono le imprese, costrette ad operare in un clima di precarietà ed oppressione burocratica, e i cittadini, con l’infinita dilatazione dei tempi per qualunque opera pubblica.
Tutto questo in un Paese in cui non si riesce a trasformare in infrastrutture e pagamenti alle imprese circa 200 miliardi già stanziati e disponibili, come di recente sottolineato dal rapporto annuale dall’Osservatorio per le infrastrutture strategiche della Camera dei Deputati.
Di fronte all’emergenza pandemica, il governo Conte ha trovato il suo modo di affrontare la questione con una semplice e inquietante formula: tutto il potere ai burocrati e pietra tombale sulla concorrenza. Derogare ai bandi e alle procedure aperte significa, infatti, rimettere ai dirigenti pubblici il potere di scegliere chi eseguirà i lavori, senza possibilità per le imprese di competere e per l’amministrazione di spuntare il miglior rapporto qualità-prezzo. Dinamica rischiosa che da un lato incentiva alla corruzione del decisore pubblico (quando non si può competere legalmente, si è spinti verso l’illegalità) e che espone molte piccole-medie imprese al fallimento per mano dello Stato. Il contrario di quel che si doveva fare. In Italia sono pochissime oramai le aziende in grado di realizzare grandi progetti infrastrutturali (da miliardi di euro) ed in quel caso la scelta della procedura negoziata sarebbe stata più sensata. Ma ciò non si può fare per le regole europee, che impongono bandi e gare aperte per appalti sopra una certa soglia. Dunque, l’esecutivo ha deciso di tarpare le ali alla concorrenza nei rami bassi, nei piccoli appalti. Conte ha scelto di stare dalla parte della dirigenza pubblica, che ora può disporre poteri e garanzie maggiori, invece che da quella degli imprenditori, che saranno costretti a venire a patti con processi poco concorrenziali. Col rischio di collusioni, opacità e formazione di cartelli. In altre parole, il denaro dei cittadini sarà pilotato in maniera più dirigistica dall’amministrazione pubblica. Era proprio necessario? Eliminare certificazioni e autorizzazioni preventive richieste dal Codice Appalti è un buon passo, ma si sarebbe dovuta sfruttare l’occasione per modernizzare un settore rimasto troppo indietro. La tecnologia, in paesi come gli Stati Uniti, permette oramai di svolgere sicure gare d’appalto online, con algoritmi capaci d’indicare la migliore offerta e le imprese più affidabili, in tempi ridottissimi. Passare all’affidamento diretto non è una modernizzazione e nemmeno una semplificazione: significa abolire la concorrenza e rafforzare esageratamente il potere dei funzionari dello Stato. Infine, bisognerebbe domandarsi cosa serva oggi all’Italia, se la deroga e la discrezionalità del potere amministrativo oppure la certezza del diritto e la concorrenza. Il governo ha scelto il primo programma, il buon senso indicherebbe il secondo.
