Minacciare di trascinare in giudizio chi scrive di te è un deterrente che funziona. Tenere sotto ricatto della politica i giornalisti non dispiace e dunque il Parlamento si guarda bene dal cambiare le cose, perché il risentimento nei confronti della categoria di cui faccio parte è bipartisan.
Quindici anni fa venni condannato per aver osato pubblicare un articolo in cui un parlamentare raccontava dello scontro in atto fra Procura di Palermo e Arma dei carabinieri. All’epoca ero direttore di Panorama, e annunciai ai lettori che per la giustizia ero da considerare un pregiudicato, in quanto la sentenza a una pena di quattro mesi di carcere era divenuta definitiva. La storia iniziò a margine del processo Andreotti, quando Lino Jannuzzi raccontò sulle pagine del quotidiano da me diretto lo scontro in atto fra pm e uomini della Benemerita, sullo sfondo della trattativa Stato-mafia. Alcuni magistrati si sentirono punti sul vivo e diedero mandato ai legali di querelare l’onorevole e anche me, che di quell’articolo avevo consentito la pubblicazione. In primo grado, Jannuzzi si sfilò, facendosi scudo delle proprie prerogative parlamentari e nelle grinfie del tribunale rimasi solo io.
Il giudice monocratico, una donna, fece una vera e propria istruttoria, ascoltando tutti i testimoni, ufficiali dell’Arma compresi, e alla fine, dopo molte udienze, sentenziò che quanto aveva scritto il parlamentare e che io avevo pubblicato era vero e dunque mi assolse per non aver commesso il fatto. Manco a dirlo, i querelanti montarono su tutte le furie e ricorsero in appello, dove in men che non si dica ottennero di ribaltare la sentenza: condannato – io, non Lino – a quattro mesi di carcere. Il mio legale dell’epoca pensava che la suprema corte avrebbe cassato il verdetto, quanto meno nella parte della detenzione. Invece, contro ogni pronostico, la Cassazione confermò e io divenni per la giustizia tecnicamente un pregiudicato, a cui in eventuali altri procedimenti non concedere alcuno sconto. Se ricordo l’episodio, non è per lamentare un danno reputazionale a 15 anni di distanza e nemmeno per i quattro mesi di carcere che mi sono ritrovato sul gobbo. Infatti il mio angelo custode nelle vicissitudini giudiziarie prima si rivolse alla Corte europea dei diritti dell’uomo per far giudicare ingiusta la sentenza e, una volta ottenuta un pronunciamento favorevole con relativa condanna dell’Italia, presentò richiesta alla corte d’Appello per far cancellare i quattro mesi di detenzione che mi erano stati affibbiati.
Onore al legale che riuscì in entrambe le operazioni e dunque tutta l’incredibile storia (se l’opinione di un parlamentare non può essere sindacata, perché la decisione di un direttore che la riporta, come riporterebbe un qualsiasi discorso di un deputato alla Camera, non solo può essere sindacata, ma anche censurata con una condanna?) fu rimossa. Perché dunque rinvangare una faccenda vecchia? Per due motivi, entrambi attuali. Il primo è che a fine aprile la Cassazione ha assolto alcuni alti ufficiali dell’Arma dall’accusa di aver tramato con i boss di Cosa nostra. Il processo, andato avanti per anni, riguardava la cosiddetta trattativa Stato-mafia. Il generale Mori, all’epoca comandante dei Ros, e i suoi collaboratori sono stati assolti per «non aver commesso il fatto».
Dunque, le accuse formulate dalla Procura si sono dimostrate infondate, mentre certo era vero, documentato dal processo, lo scontro fra pm e carabinieri che in qualche misura era stato anticipato da Jannuzzi con l’articolo che aveva suscitato scandalo e che era all’origine della sentenza che mi rifilò una pena di quattro mesi di carcere. C’è poi un secondo motivo per cui rievoco i fatti di Palermo ed è che nella sentenza della Cedu, quella che condannò l’Italia per avermi condannato, si dice che ai giornalisti ritenuti colpevoli di diffamazione (o omesso controllo) non si applica il carcere, perché una tale misura è contraria alla libertà di stampa.
Anche dalla decisione della Corte europea sono passati anni, ma come spesso capita, l’Italia se n’è infischiata, continuando a lasciare nel Codice penale il reato di diffamazione a mezzo stampa e se non fosse intervenuta, dopo il pronunciamento della Cedu, la Corte costituzionale le cose starebbero ancora come 15 anni fa. Certo, fra i tanti problemi che ha il nostro Paese, uniformare la legge alle norme sull’informazione in vigore nel resto d’Europa non è la cosa più urgente. Tuttavia, c’è anche un altro aspetto: tenere sotto ricatto della politica i giornalisti non dispiace e dunque il Parlamento si guarda bene dal cambiare le cose, perché il risentimento nei confronti della categoria di cui faccio parte è bipartisan.
Minacciare di trascinare in giudizio chi scrive di te, magari criticandoti aspramente, è un deterrente che funziona. Le citazioni davanti ai giudici, soprattutto civili, sempre più spesso sono un’arma per intimidire e imbavagliare chi scrive. Non lo dico io: ogni tanto, c’è qualche giudice che respingendo le richieste di condanna, lo mette nero su bianco. Ma alla politica fa comodo non vedere e lasciare le cose come stanno.