Forse, passate le vacanze estive sarà il caso di cominciare a pensare alle elezioni. Perché, vista la crisi in tutti i settori, dopo la prima e la seconda Repubblica può arrivare anche la fine della Repubblica.
Non so voi, ma quando Mario Draghi si insediò a Palazzo Chigi io tirai un sospiro di sollievo, perché pensai che il Paese sarebbe stato in mani più sicure di quelle di Giuseppe Conte. Subito dopo aver pensato ciò, tuttavia mi chiesi chi glielo facesse fare, ma, ritenendo che ambisse a diventare presidente della Repubblica al posto di Sergio Mattarella, ne conclusi che l’ex governatore della Bce aveva accettato di tirare la variopinta carretta certo che di lì a un anno sarebbe stato ricompensato per il sacrificio. Non credo di andare troppo lontano dal vero se dico che il premier non ha alcuna stima della quasi totalità dei leader politici con cui ha a che fare e a cui però deve la stabilità del suo governo. Penso tuttavia che quando decise di accettare l’incarico di guidare l’esecutivo avesse messo in conto costi e benefici. Da un lato avrebbe dovuto faticare per tenere insieme un’armata Brancaleone che va dai Cinque stelle alla Lega passando per Leu, ma dall’altro alla fine avrebbe coronato la sua carriera di uomo delle istituzioni con l’incarico più ambito di rappresentare la Repubblica, un onore che era già toccato ad altri due governatori della Banca d’Italia come Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi. Insomma, mettendomi nei suoi panni, lo capisco. Peccato però che le cose non siano andate come egli si aspettava.
Infatti, paradossalmente la sua più grande colpa è stata proprio quella di aver accettato di diventare presidente del Consiglio e dunque, quando si è trattato di scegliere il nuovo capo dello Stato, Draghi è parso la persona meno adatta. Non perché non avesse uno «standing» istituzionale e nemmeno perché non lo si ritenesse capace di assumere un ruolo autorevole come quello di presidente della Repubblica. Tutt’altro. Il problema era che, via lui da Palazzo Chigi, la legislatura rischiava di franare. In pratica, senza che neppure lo avesse immaginato, l’ex governatore della Bce si è trovato inchiavardato alla poltrona, in quanto considerato l’unico garante della stabilità. Mentre già a dicembre dello scorso anno, ossia pochi mesi prima del voto per la nomina del nuovo inquilino del Quirinale, Draghi si sentiva pronto al trasloco, a fine gennaio ha dovuto prendere atto che sul Colle sarebbe rimasto Mattarella e dunque è stato costretto ad attrezzarsi per completare il mandato almeno fino alla primavera 2023.
Certo, questo non faceva parte dei suoi piani. Probabilmente da uomo disciplinato e concreto qual è pensava che una volta messo a punto il Pnrr e tenuta sotto controllo la pandemia con una campagna massiccia di vaccinazioni, la sua uscita da Palazzo Chigi sarebbe stata una passeggiata accompagnata dagli applausi. In altre parole, al Quirinale sarebbe stato portato a furor di popolo. Purtroppo per lui, ma anche per noi, le cose non sono andate così, perché una volta inchiodato alla poltrona più scottante d’Italia e per di più con una guerra che nessuno poteva prevedere, Draghi è stato costretto a fare i conti con una situazione incandescente, che non sarà facile raffreddare. Anzi, il rischio è che l’incendio divampi. Mi spiego: quando a febbraio dello scorso anno si insediò alla guida del governo, il debito pubblico ammontava a 2 mila 640 miliardi di euro, ma sedici mesi dopo siamo a 2 mila 760 miliardi, vale a dire quasi 10 miliardi al mese in più. Non va meglio con lo spread. Quando giurò nelle mani del presidente Mattarella lo spread, ossia il differenziale tra i tassi d’interesse del nostro debito pubblico e quello tedesco, era a 105 punti e oggi siamo a 197,5. Se poi apriamo il capitolo dell’inflazione il divario è ancora più preoccupante, perché siamo passati dall’uno per cento dell’inizio anno 2021 all’8 per cento che è stato registrato in queste settimane.
Certo, se il debito sale, lo spread raddoppia e l’inflazione va a mille non è colpa di Draghi. Nessuno poteva immaginare che dopo il Covid arrivasse la guerra. E neppure Nostradamus sarebbe riuscito a prevedere che alla ripresa, dopo quasi due anni di lockdown, il prezzo del gas sarebbe decuplicato e quello del greggio sarebbe cresciuto del 50 per cento. Però, purtroppo, è la realtà con cui oggi dobbiamo fare i conti. Anche in questo caso non credo di sbagliare se dico che Draghi mai avrebbe ipotizzato di trovarsi in una situazione del genere. Se dovessi fare un paragone, l’ex presidente della Bce mi sembra un pilota di Formula Uno che sale a bordo di una vettura da competizione ma una volta partito si accorge che il motore non funziona, i freni sono scadenti e gli pneumatici non tengono. Per di più piove e sul circuito si slitta, senza contare che la squadra che dai box lo dovrebbe assistere sembra più intenzionata a litigare per salvare il posto che ad aiutarlo.
Cioè, per parlarci chiaro, non solo non lo invidio, ma neppure so come riuscirà a uscire vivo (politicamente, ovvio) da questa situazione. Davanti a sé Draghi ha ancora molti giri in pista, perché deve arrivare al traguardo di fine maggio del prossimo anno, ma purtroppo ha già consumato parecchia benzina e ha lasciato sull’asfalto anche gran parte del battistrada. Inoltre, a settembre deve affrontare una serie di pericolose chicane, con il rischio di finire fuori strada. Insomma, ciò che lo aspetta è quasi un’impresa disperata. Tuttavia, se non ci riesce lui, tocca chiederci chi ce la farà e soprattutto che cosa succederà nella prossima primavera quando l’ex banchiere saluterà per ricollocarsi, magari, alla guida della Nato. Con chi dovremo fare i conti? Con il nuovo statista di Pomigliano, al secolo Luigi Di Maio? So che le elezioni sono distanti, ma forse, passate le vacanze estive sarà il caso di cominciare a pensarci, perché dopo la prima e la seconda Repubblica può arrivare anche la fine della Repubblica.