Panorama è andato sulle tracce di Piero Amara e Giuseppe Calafiore, avvocati al centro di intrighi economici e vicende giudiziarie, a cominciare dal processo Eni in corso. Ecco contatti, luoghi e «tesoretti» dei due – più che controversi – «collaboratori di giustizia».
La magistratura italiana squassata dal caso Palamara per sopravvivere è costretta a scommettere su «Zorro» ed «Escobar», alias di due controversi avvocati siciliani, Piero Amara e il suo sodale, Giuseppe Calafiore. I pm di Milano e Perugia si sono aggrappati alle loro dichiarazioni per provare a vincere due complicati processi: quelli contro i vertici dell’Eni e Luca Palamara. Ma le difese degli imputati sollevano molti dubbi sull’attendibilità dei due testimoni chiave, che nascondono contraddizioni e misteri. Nel 2018, sono stati arrestati per contestazioni gravissime come la corruzione in atti giudiziari e l’associazione per delinquere finalizzata ai reati tributari. Imputazioni per le quali, però, hanno concordato pene quasi bagatellari. Da allora i due, anziché affrontare lunghi e noiosi processi senza giudici a libro paga, hanno preferito «pentirsi» e diventare «collaboratori di giustizia».
In cambio sono rimasti in cella pochi giorni e nessuno, sembra, ha mai pensato di sequestrare il provento delle loro attività di legali, lobbisti e corruttori. Come madonne pellegrine passano da un Tribunale all’altro, dove un giorno accusano i manager dell’Eni, un altro Palamara e il terzo, per fare un altro esempio, ex ministri come Paola Severino e Filippo Patroni Griffi.
Molte procure scommettono sui loro ricordi. E i due oracoli raramente deludono chi si affida ai loro responsi. Infatti molto sanno e quello che non sanno lo attribuiscono a terze persone che solitamente li smentiscono. La Procura di Milano, per esempio, punta molto su Amara nel processo Eni in cui i giudici si chiuderanno in camera di consiglio nei prossimi giorni. Amara, che con le sue dichiarazioni ha tentato inutilmente di disarcionare il giudice Marco Tremolada, messo ko solo dal Covid, nel capoluogo meneghino ha servito ai pm una memoria che ha inguaiato l’amministratore delegato Claudio Descalzi. Ha raccontato di avere costruito negli anni scorsi, per conto dei capi dell’Eni, un falso complotto con l’obiettivo di affondare le inchieste milanesi su possibili corruzioni internazionali in Algeria e Nigeria e di danneggiare i supposti nemici dell’ad. Tre manager, tra cui Descalzi, hanno querelato per diffamazione aggravata Amara, e uno di loro, Claudio Granata, ha denunciato Calafiore per calunnia.
I due supertestimoni, va detto, sono dichiaranti a intermittenza. Per esempio «Zorro» in questi anni non ha mai parlato dei suoi rapporti economici con Roberto Pignatone, fratello dell’ex procuratore di Roma Giuseppe.
Ma chi sono davvero Amara e Calafiore? Risultano un mistero anche per gli investigatori che per mesi li hanno intercettati riuscendo a scoprire poco più che i loro soprannomi. In chat il primo si faceva chiamare Zorro o Peter Pan; il secondo, invece, era Escobar, come Pablo, il narcotrafficante colombiano. Attualmente Calafiore è sospeso dall’attività professionale, mentre Amara è sotto procedimento disciplinare a Catania.
Di entrambi circolano solo poche immagini. Si sa che Piero è nato nel 1969 ad Augusta e che Giuseppe, siracusano, è dieci anni più giovane. Tra i due il «boss» era Amara, che su WhatsApp ha scelto come immagine del profilo il volto di Batman, l’uomo-pipistrello. Suo padre Giuseppe è stato per molti anni un potente politico della zona, di fede socialista. La madre è stata professoressa di italiano alle medie, il nonno contadino.
Dopo il liceo classico in paese, si iscrive a giurisprudenza a Catania. Grazie a un suo professore, di cui diventa allievo prediletto, entra in contatto con uno degli storici avvocati dell’Eni e nel 2002 inizia a lavorare come legale esterno per il colosso energetico. Per questo Amara, parlantina sciolta da perfetto erede del retore Gorgia, si specializza in diritto ambientale e difende dirigenti della multinazionale in diversi processi siciliani per inquinamento, a partire dai procedimenti legati ai petrolchimici di Siracusa e Gela.
Un settimanale locale qualche anno fa riportò una presunta vanteria di Amara: «Ho una percentuale di successo del 100 per cento». Ma lo score immacolato già all’epoca portava gli scettici a pensare che quei successi non potessero essere genuini. E a dare ragione ai detrattori arrivarono le inchieste: prima furono smascherati i suoi rapporti illeciti con un cancelliere del Tribunale di Catania e poi l’indagine sul cosiddetto Sistema Siracusa che scoprì definitivamente le sue carte truccate.
Un gioco sporco, fatto di toghe a libro paga, che lo aveva portato ad allungare i propri tentacoli in molte procure e su su sino al consiglio di Stato dove era diventato un consigliere ad honorem grazie alla capacità di comprare giudici come zucchine al supermercato.
Oggi Zorro è quasi un fantasma. Da anni non presenta dichiarazioni alla cassa forense e dal punto di vista lavorativo, nel 2020, gli unici emolumenti dichiarati (circa 5 mila euro) gli sono arrivati dal consorzio romano Il Melograno, struttura dove lui e Calafiore stanno scontando l’affidamento in prova ai servizi sociali. «Si occupavano dell’assistenza ai disabili», conferma l’addetta all’amministrazione, «ma ora sono in cassa integrazione come tutti gli altri nostri collaboratori». E aggiunge: «Avevamo in mente anche un progetto da affidare loro, un ufficio per la rappresentanza e la raccolta fondi da sostenitori e sponsor, ma purtroppo il Covid ha rallentato tutto e non siamo riusciti a metterlo a punto». Questa onlus merita una piccola parentesi. Il presidente è, infatti, Mario Monge condannato in primo e secondo grado per una turbativa d’asta nel processo Mafia capitale. Legato alle coop bianche fece l’errore di partecipare a una gara insieme con il ras delle coop rosse Salvatore Buzzi. Recentemente la Cassazione ha accolto il suo ricorso e ha ordinato un nuovo appello.
Rimettiamoci ora sulle tracce di Amara. In piazza San Bernardo a Roma, a due passi dalla celebre fontana del Mosè, viveva in un bell’attico. Lo ha lasciato dopo l’inizio delle disavventure giudiziarie, così come l’elegante studio in via della Frezza, poco distante da piazza di Spagna. Ha spostato la residenza prima a Orvieto, in provincia di Terni, e poi, nel 2019, a Nocera Inferiore (Salerno). Il domicilio ufficiale si trova a due passi dal palazzo di giustizia di Nocera, in quello che i carabinieri chiamano «il fortino della droga».
Nel quartiere ci sono ditte che ristrutturano stabili malandati. In mezzo al degrado spicca la presunta casa di «Zorro», uno stabile dalla facciata gialla che non sembra avere nulla in comune con l’area circostante. Ha un ampio portone e pochi nomi sul citofono. All’interno, però, le cassette postali confermano che l’edificio è completamente abitato. Eppure su nessun campanello compare il nome di Amara. C’è, però, una cassetta a lui intestata, di fattura differente rispetto a quelle dei condomini. È piazzata un po’ più in alto delle altre ed è zeppa di raccomandate e di pubblicità. Segno che la corrispondenza non viene ritirata da tempo.
Nel palazzo nessuno dice di conoscere Amara. E anche la commerciante di detersivi che si trova al piano terra dello stabile conferma di non averlo mai visto. Alcuni condomini hanno notato la comparsa di quella cassettina all’improvviso e si sono incuriositi, tanto da effettuare qualche ricerca. Che non ha dato risultati.
Ci spostiamo allora a Orvieto, in Umbria. A pochi metri dal celebre Duomo c’è un vicolo in cui Amara ha trasferito la residenza nel 2019. Al civico 8, una palazzina di due piani color bianco sporco, c’è un citofono con i nomi di sei inquilini e chi risponde, come era successo in Campania, non ha memoria dell’avvocato. Il suo volto non dice nulla neanche al cassiere del supermercato di fronte all’edificio.
Anche Calafiore è un tipo sfuggente. Ma lui è rimasto a fare il vitellone intorno a Campo de’ fiori a Roma. Un anno fa ha lasciato un grazioso appartamentino per spostarsi poco lontano, in un intrico di vicoletti con palazzi a tratti fatiscenti e dalle fondamenta antichissime. Murales e pareti scrostate ci introducono a un piccolo cortile sovrastato da un arco. Sul citofono in mezzo a un’altra ventina di cognomi spuntano quelli di Calafiore e della moglie. Il campanello, però, suona a vuoto. Comunque gli abitanti della zona ci assicurano che «Escobar» si veda spesso in giro.
Lui tira avanti con qualche consulenza per la concessionaria d’auto del fratello e per una società di management, ma parliamo sempre di pochi soldi (non più di 20 mila euro) rispetto al passato tenore di vita. La ditta di management si chiama Nk Capital e ha sede allo stesso indirizzo di Martina Franca (Taranto) della fallita P&G corporate di cui Calafiore possiede il 5 per cento delle quote e Amara il 50.
Anche «Escobar» ha percepito redditi esigui dalla coop il Melograno e il 27 gennaio ha inaugurato una società individuale di consulenza amministrativa con ufficio distaccato in Costa d’Avorio. La ditta ha sede in un palazzo a pochi metri dalla corte di Cassazione. Sul citofono e sulle porte degli appartamenti non compare alcuna targa, ma nello stesso edificio si trova lo studio dell’avvocato Salvino Mondello, difensore di Amara e di altri colletti bianchi accusati di reati contro la pubblica amministrazione.
La loro carriera di pentiti è iniziata accusando «quattro pensionati» in toga, per dirla con Stefano Fava, il pm che tra il 2018 e 2019 aveva chiesto inutilmente (i superiori gli hanno persino tolto il fascicolo) per due volte un nuovo arresto per Amara e il sequestro del suo presunto tesoretto (di cui parleremo tra poco), considerandolo un testimone poco attendibile. Poi sono arrivate le accuse ai vertici dell’Eni e ultimamente, a Perugia, dove erano già stati sentiti più volte, i due legali hanno offerto ai pm, che la cercavano da due anni, la presunta pistola fumante contro Palamara.
Anche in questo, come in altri casi «fotocopia», i testimoni citati da Amara hanno, però, smentito tutto e annunciato querele. In particolare lo ha fatto il procuratore generale di Messina Vincenzo Barbaro, che si sente tirato in mezzo ingiustamente e che, guarda caso, a novembre ha avanzato ricorso per Cassazione contro la sentenza di patteggiamento di Calafiore: «Stupisce enormemente che la Procura di Messina abbia concordato con uno dei principali imputati – l’avvocato Giuseppe Calafiore – pene men che simboliche e che il Gup di Messina abbia ritenuto legittimo tale patteggiamento (…).”Un oltraggio alla giustizia” appare infine l’esito di un giudizio per il quale, per reati dalla enorme gravità di quelli rubricati a carico dell’avvocato Calafiore, sono state comminate le pene menzionate».
Quattro mesi dopo Barbaro è finito nel tritacarne dei due «pentiti» in toga. Sullo sfondo resta il già citato tesoretto che Amara, secondo il pm Fava, avrebbe messo da parte e che per ora nessuno gli ha mai sequestrato. Il caso è molto dibattuto. Infatti secondo il magistrato romano e l’Eni ci sarebbe il professionista siciliano dietro alle fortune della Napag Srl, una piccola ditta calabrese fondata nel 2012 a Gioia Tauro per commerciare succhi di frutta e passata improvvisamente agli affari petroliferi. Nel 2018 ha incassato circa 94 milioni di euro dall’Eni Spa per una vendita di prodotti che la compagnia petrolifera considera truffaldina. Il giorno successivo alla perquisizione disposta il 23 maggio 2019 nei confronti di Amara per questi pagamenti, l’avvocato Mondello si era affrettato a dichiarare al Corriere della Sera che si trattava di un «abbaglio della Procura» poiché «Amara non ha cointeressenza con la Napag, ma solo rapporti di clientela ed amicizia».
Panorama ha tuttavia letto alcuni documenti (tra cui un audit interna dell’Eni) depositati nel processo milanese sulle presunte tangenti nigeriane pagate dalla società pubblica che dimostrerebbero l’esatto contrario di quanto sostenuto dall’avvocato Mondello.
Nel febbraio del 2017 la Napag trasforma il proprio oggetto sociale, passando dal commercio in prodotti alimentari, bevande e tabacco a quello di prodotti petroliferi e lubrificanti, dopo aver trasferito la sede legale da Gioia Tauro a Roma, nello studio di Amara. Ad aprile quest’ultimo invia un bonifico in favore del titolare formale della Napag, Francesco Mazzagatti, di 40 mila euro con la causale «prestito aumento capitale sociale». Ma, come aveva notato Fava, solitamente sono i clienti che pagano gli avvocati e non questi ultimi che prestano soldi ai loro clienti.
Prima della svolta del petrolio Mazzagatti e Amara erano entrati e usciti dagli uffici dell’Eni più volte e insieme erano volati anche nella sede di Teheran della compagnia petrolifera. In quegli incontri fanno i nomi di alcuni loro referenti all’interno dell’azienda, oggi tutti allontanati. Ma nonostante i potenti sponsor almeno due dirigenti bocciano le loro proposte. C’è chi li considera una «controparte non affidabile» e chi, sentita la proposta di investire un miliardo di euro nell’ammodernamento di un impianto petrolifero iraniano, li liquida perché «le conoscenze per questo tipo di progetti di Mazzagatti e Amara erano tali da sconsigliare di avventurarsi in piani di questa portata».
Ma Amara è una goccia cinese. E nel suo studio fa lavorare molti «figli di» o anche parenti di grado diverso. Per esempio, nota l’audit, nel suo studio ha assunto come praticante la nipote dell’ex numero 2 dell’Eni Antonio Vella. Che successivamente è passata alla Napag.
Il 2 febbraio 2018, tre giorni prima di essere arrestato, Amara conclude un contratto di locazione per un appartamento romano, piano attico, dove viene trasferita la sede legale della Napag. Mentre Amara è in cella, la società calabrese incassa dall’Eni quasi cento milioni di euro, suddivisi su otto bonifici (inviati a Dubai e a Bruxelles), per tre forniture di greggio e derivati del petrolio come il polietilene ad alta densità e la «virgin nafta». Successivamente l’Eni scopre e denuncia che quella merce avrebbe avuto in gran parte «qualità e provenienza diversa rispetto a quella contrattualizzata, anche con la produzione di documenti rivelatisi falsi».
In pratica la Napag avrebbe spacciato come iracheni prodotti iraniani sotto embargo. Gli 007 interni dell’azienda petrolifera hanno anche ricostruito la rete di appoggi di Amara all’interno dell’Eni e l’hanno «disarticolata». Nel frattempo, come già successo con Palamara, il legale di Augusta ha iniziato a fare dichiarazioni contro l’ad Descalzi, dopo averlo inizialmente escluso dalle sue chiamate di correo.
Per tutto questo l’Eni ha citato Amara per danni, chiedendo un risarcimento di 30 milioni di euro, ha denunciato in Italia per truffa Mazzagatti dellla Napag, mentre a Londra – alla stessa società – ha chiesto cinque milioni di danni, patiti e non recuperati per la storia del greggio iraniano.
L‘avvocato Roberto Ripepi di Palmi, a nome della Napag, nei giorni scorsi ci ha scritto per precisare che la società «ha già smentito categoricamente ogni forma di partecipazione, diretta e/o indiretta, di Amara nella propria compagine sociale». Ne prendiamo atto. «Zorro» non è socio della Napag, ma, da eroe buono qual è, le ha garantito un pieno da 100 milioni di euro.