L’elezione del presidente di estrema sinistra José Pedro Castillo segna il ritorno dei massacri del gruppo terrorista Sendero luminoso nel Paese. Questo politico che si ispira al regime di Cuba – e somiglia a Morales e a Chávez – è pronto anche a «socializzare» l’economia.
Il massacro di 16 contadini a San Miguel del Ene, nella valle dei fiumi Apurímac, Ene e Mantaro – Vraem come la chiamano tutti in Perù -, il 23 maggio scorso, ha segnato il ritorno in grande stile di Sendero luminoso: il gruppo terrorista d’ispirazione maoista che tra il 1980 e il 2000 uccise oltre 32 mila persone in una guerra interna che costò 70 mila morti. Un preludio di sangue delle elezioni che 15 giorni dopo hanno visto vincere sul filo del rasoio José Pedro Castillo, 51enne maestro di estrema sinistra che avrebbe sconfitto per una manciata di voti (appena 44 mila su 19 milioni di elettori) Keiko Fujimori, la candidata della destra figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori (1990-2000), ancora oggi in carcere dopo una condanna a 25 anni per violazione dei diritti umani.
Il condizionale è d’obbligo viste le tante denunce di brogli che avrebbero favorito Castillo. Il responso ufficiale si saprà solo a inizio luglio ma una certezza rimane, ovvero i forti legami di Castillo e del suo partito marxista-leninista Perù Libre con Sendero luminoso. Basti dire che il deputato Guillermo Bermejo, vicino al neopresidente, sta affrontando un processo dov’è accusato di appartenere proprio all’organizzazione terroristica che opera nel Vraem da 15 anni dedicandosi al narcotraffico, oltre ad ammazzare contadini.
Sul luogo della strage del maggio scorso sono stati trovati opuscoli del Partito comunista militarizzato del Perù, gli «eredi» della più crudele guerriglia della sinistra latinoamericana. Sopra frasi deliranti come «Chi vota a favore di Keiko Fujimori è un “traditore”, è un assassino del Vraem, è un assassino del Perù. Viva il marxismo-leninismo-maoismo!».
Sul corpo di una vittima è stato anche rinvenuto un volantino – pieno di improperi contro la comunità Lgbt – che rivendicava l’attacco a nome di Sendero luminoso. Le accuse di agire con l’appoggio del gruppo narco-terrorista che opera nel Vraem, zona chiave per la produzione di foglie di coca e dove vive mezzo milione di persone, si basano anche sul fatto che in Perù Libre, il partito di Castillo, ci sono membri del Movadef.
L’acronimo sta per Movimento per l’amnistia e i diritti fondamentali ed è un gruppo politico che rivendica l’ideologia comunista di Sendero luminoso, rifiutando però la lotta armata e chiedendo l’amnistia per i terroristi. Natalí Durán, esperta di violenza politica dell’Universidad Nacional Mayor di San Marco di Lima, spiega che il Movadef è considerato da molti come il braccio politico di Sendero luminoso: «La sua creazione nel 2009 causò uno scandalo e fu introdotta una legge che vietava l’ingresso degli ex guerriglieri nella vita politica nazionale».
Castillo è dunque il leader di un partito che si autodefinisce marxista-leninista e in campagna elettorale ha detto di volere nazionalizzare le miniere di proprietà straniera. Un movimento che invoca Lenin e Fidel Castro e mette in discussione le istituzioni democratiche, a cominciare dalla libertà di stampa. Castillo è un personaggio che si inquadra bene nel realismo magico latinoamericano del compianto Gabriel García Márquez se si pensa che è arrivato a votare su un cavallo bianco.
Soprattutto, nessuno si aspettava la sua vittoria visto che, al primo turno, lo scorso aprile, la Cnn non aveva neanche una sua foto per l’infografica da affiancare agli exit poll. Un maestro che saluta con il pugno chiuso e faceva sino a pochi mesi fa discorsi discriminatori nei confronti degli omosessuali, una sorta di ex presidente boliviano Evo Morales in salsa peruviana, pur non essendo capace della sua stessa oratoria incendiaria.
Per Vladimir Cerrón, il fondatore e segretario generale di Perù Libre nonché la vera mente che sta dietro Castillo, l’obiettivo della sinistra marxista-leninista peruviana non è solo vincere un’elezione, ma prendere il potere per rimanerci il più a lungo possibile. «I comunisti in America Latina, anche quando eletti, sono come le invasione di parassiti in casa. Una volta dentro, non se ne vanno» ha scritto a metà giugno con acume la prestigiosa giornalista Mary Anastasia O’Grady sul Wall Street Journal.
Gli esempi di Chávez in Venezuela ma, soprattutto, il castrismo a Cuba, del resto, ne sono le dimostrazioni più lampanti. Non è un caso che Castillo voglia introdurre in Perù «un’assistenza sanitaria simile a quella cubana e questo genera confusione intorno alla sua figura poiché in Perù il comunismo è associato al terrorismo», aggiunge Durán. Molti peruviani vedono come una minaccia l’obiettivo di lungo periodo di Cerrón (che ha vissuto per un decennio a Cuba, forgiando lì le sue idee politiche castriste) consci della povertà causata dai modelli politico-economici di Caracas e l’Avana.
Inoltre, di recente il Movadef si è riunito con Castillo e i suoi supporter hanno partecipato, in prima linea, alle proteste contro la Fujimori di fronte alla Giunta elettorale peruviana, l’organismo preposto a dichiarare ufficialmente chi ha vinto le elezioni nel Paese andino. Salvo impensabili cataclismi – i ricorsi vanno avanti da settimane e l’instabilità politica del Perù che ha cambiato quattro presidenti negli ultimi due anni è proverbiale – il prossimo 28 luglio sarà dunque questo 51enne maestro di scuola comunista a insediarsi alla presidenza. Dalla sua ha l’appoggio della zona rurale del Paese che lo ha votato essendo riuscito a riunire lo scontento delle classi più povere, soprattutto quelle delle zone periferiche e contadine, storicamente dimenticate dalla capitale Lima. Il suo slogan «Mai più poveri in un Paese ricco!» è più o meno ciò che diceva Chávez agli inizi, adducendo come causa di tutti i mali l’imperialismo yankee, le multinazionali e propagando una forma di «via nazionale al socialismo».
In Perù una strategia simile l’aveva già sperimentata in passato la giunta del generale Juan Velasco Alvarado, che prese il potere nel 1968 con la sua revolución nazionalista, unica dittatura di sinistra nell’epoca della Guerra fredda (naturalmente, a parte Cuba). Nato in una zona rurale a 700 chilometri da Lima, Castillo è assurto agli onori delle cronache per la prima volta nel 2017, quando guidò uno sciopero di insegnanti che bloccò il Paese per 75 giorni per chiedere un aumento di stipendio e già all’epoca emersero i suoi contatti con il braccio politico di Sendero luminoso. Le sue proposte sono riscrivere la Costituzione tramite un’Assemblea costituente, aumentare il bilancio pubblico per il settore agricolo e preservare l’ambiente. Suo obiettivo cambiare l’economia sociale di mercato difesa dall’attuale Costituzione per sostituirla con una fumosa «economia popolare con più mercati».
Difende più statalismo e la rinegoziazione delle royalties delle grandi aziende multinazionali minerarie e petrolifere presenti nel Paese. Inoltre vuole che la percentuale del Pil destinata all’istruzione oggi del 3,5 per cento passi al 10, un’istruzione che deve modellare le menti delle nuove generazioni secondo l’ideologia di partito sul modello cubano.
Contrario all’aborto e al matrimonio omosessuale, è conservatore anche su temi come la lotta contro l’insicurezza appoggiando la «mano dura» nel settore dell’ordine pubblico. Per il premio Nobel della letteratura Mario Vargas Llosa, «sarà Cerrón il proprietario del partito Perù Libre, il vero potere dietro il trono» e questo è molto pericoloso perché, «a sentire parlare lui e alcuni suoi sostenitori si ha la sensazione di ascoltare la polizia stalinista».
Queste elezioni peruviane, conclude il romanziere, «non hanno nulla a che fare con quelle che si sono svolte finora nella nostra storia, perché qui non si è trattato di cambiare persone o partiti, ma di cambiare il regime».
