Dimenticate la lentezza tipica del genere noir d’oltralpe. Il film November – I cinque giorni dopo il Bataclan «non dà un attimo di tregua allo spettatore», garantiscono regista e sceneggiatore «ma, a differenza dei film americani, non ha eroi. La squadra che dà la caccia ai terroristi è l’unica vera protagonista».
Non c’è un attimo di tregua per gli spettatori che vedranno November – I cinque giorni dopo il Bataclan, thriller adrenalinico di Cédric Jimenez con un cast all star, in uscita il 20 aprile, in cui si raccontano le indagini sugli attentati terroristici avvenuti a Parigi la notte del 13 novembre 2015. È tarda sera quando negli uffici della divisione nazionale antiterrorismo nella capitale francese tutti i telefoni iniziano a squillare come impazziti. Ai pochi presenti, pronti a richiamare in servizio i colleghi in libera uscita, si compone pian piano il puzzle di una situazione drammatica: Parigi è sotto attacco da parte di un commando dell’Isis, e dopo alcune esplosioni allo Stade de France, dove si sta giocando Francia-Germania, e diverse sparatorie in centro, che lasciano a terra decine di cadaveri, tre terroristi entrano nel teatro Bataclan, in cui è in corso un concerto di una band metal americana, e armati di mitra provocano una carneficina. Mentre il presidente François Hollande appare in tv in diretta nazionale per rassicurare i cittadini, Fred (Jean Dujardin), commissario che guida la squadra antiterrorismo agli ordini di Héloïse (Sandrine Kiberlain), tiene una riunione generale con il team, affidando a ciascuno diversi compiti per catturare i terroristi in fuga.
L’indagine prosegue 24 ore su 24 in varie direzioni per cinque snervanti giorni, mettendo a dura prova tutti, tra pedinamenti, intercettazioni, analisi di telecamere di sicurezza, false piste e irruzioni armate, finché il capitano Inés (Anaïs Demoustier) si imbatte per caso nella denuncia di Samia (Lyna Khoudri): una donna incensurata che dice di ospitare in casa la cugina dell’organizzatore degli attentati, nascosto con un altro complice in un accampamento di senzatetto e tossici. Non tutti nella squadra però sembrano fidarsi della testimone. «Nel girare questa storia» spiega il regista a Panorama «volevo che il pubblico condividesse il punto di vista degli investigatori e per questo ho cercato di dare alla vicenda un ritmo forsennato, senza tregua. Era importante per me fare capire come queste persone, al servizio dello Stato, per giorni e notti si sono adoperate per arrivare a una cattura nel più breve tempo possibile. Volevo che il ritmo spezzasse il fiato e facesse provare tutta la fatica fisica e mentale dei poliziotti, la disperazione e l’impotenza di fronte agli attacchi, la gioia per i passi avanti e la frustrazione per le battute d’arresto».
Il progetto è nato circa un anno e mezzo dopo i terribili fatti di cronaca: «Quando mi è stato proposto di approcciare il soggetto» spiega lo sceneggiatore Olivier Demangel, il cui script è stato rimaneggiato insieme a Jimenez «ho subito detto che non avrei mai e poi mai voluto descrivere gli attentati, soprattutto per il rispetto dovuto alle vittime. Ho pensato allora che sarebbe stato interessante rovesciare la prospettiva: avevo letto un resoconto di quei giorni, in cui forze dell’ordine, magistrati, ma anche vigili del fuoco, paramedici e personale ospedaliero avevano tentato di arginare il caos in cui era precipitata la Francia. E così mi sono convinto che dovevo raccontare cosa era avvenuto in seno alla divisione antiterrorismo».
Interessante perché aderente alla realtà anche nel racconto delle procedure di polizia giudiziaria, November evita di fare ciò in cui troppo spesso indulgono i film americani: ovvero individuare l’eroe all’interno del gruppo. «Ho cercato di attenermi al modo di lavorare di questi poliziotti rigorosissimi» dice lo sceneggiatore. «Non ci sono personalismi, ma tutti lavorano duramente per un unico scopo, un po’ come hanno fatto gli attori di prima grandezza che hanno accettato il film pur sapendo di non poter essere protagonisti assoluti, in nome di un impegno di natura superiore a quello di un progetto ordinario». Naturalmente, per scrivere e dirigere la pellicola è stato necessario contattare i veri investigatori: «I loro nomi sono stati modificati e le loro identità mescolate» spiega Jimenez «perché sono donne e uomini che svolgono un lavoro delicatissimo e sono esposti a possibili ritorsioni. Però ci hanno aperto le porte e hanno condiviso con noi gran parte delle informazioni che riguardano il metodo di lavoro, svolto con enorme dispendio di tecnologie avanzate ma anche moltissimo intuito».
Intuito che, a un certo punto porterà a trovare quella che sembra la testimone chiave dell’indagine: «In una storia dove le psicologie dei poliziotti sono azzerate in nome della ricerca dei colpevoli, diventa essenziale quella di Samia, che racconta fatti apparentemente incredibili, in grado di dividere il team tra scettici e credenti» conclude Jimenez. Un dibattito interno che trova il suo climax nella drammatica scena del suo interrogatorio: «Abbiamo condensato in 22 minuti di riprese quel che accade in cinque ore, girando con tre cineprese e mettendo sotto pressione gli attori, per fornire a chi guarda il dilemma se credere o meno a quanto afferma».
