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La vera storia di Frate Mitra

La vera storia di Frate Mitra

Arruolato nella Legione straniera, poi rapinatore, quindi missionario francescano e guerrigliero in America Latina. La vita di Silvano Girotto, da poco scomparso, è un romanzo. Soprattutto perché è stato il primo infiltrato dei Carabinieri nelle Brigate rosse, l’uomo che nel 1974 fece arrestare Renato Curcio e Alberto Franceschini. Un atto d’eroismo che gli è costato una fama ingiusta.


La sua vita è stata un mistero a compartimenti stagni. Ha fatto il missionario francescano, il prete, l’operaio e il sindacalista. Ma è stato anche guerrigliero rivoluzionario in Sudamerica; in Francia è entrato nella Legione straniera; in Algeria ha disertato, per tornare in Italia, ma qui è finito in prigione. È stato, soprattutto, il primo infiltrato dei Carabinieri nelle Brigate rosse.

Poi l’Italia l’ha ingiustamente dimenticato e maltrattato. È morto lo scorso 31 marzo, Silvano Girotto, appena tre giorni dopo avrebbe compiuto 83 anni. È spirato serenamente nel letto di casa sua, a Torino, contraddicendo così un’esistenza tanto movimentata da poter ispirare non un romanzo, ma almeno due o tre: tanti, quante sono state le sue vite.

Dietro di sé Girotto ha lasciato alcuni segreti irrisolti, una vicenda umana oggettivamente unica e contorta, e una fama contraddittoria che almeno dopo la sua morte merita di essere posta nella luce corretta. Per troppi anni i cronisti l’hanno ribattezzato «Frate Mitra». L’appellativo, in sé contradditorio e violento, in effetti ha qualche giustificazione. Ma anche grazie a quel nomignolo Girotto è stato inseguito per quasi mezzo secolo dalle malignità di chi l’ha ingiustamente dipinto come un finto eroe, un uomo ambiguo e interessato, uno che dal tradimento dei brigatisti aveva guadagnato chissà quanto. Niente di più falso.

Girotto nasce nel 1939 a Caselle in una casa vicina all’aeroporto di Torino, indizio premonitore della sua inclinazione a viaggiare, e fin dall’adolescenza manifesta i segni di un carattere irrequieto e pericolosamente in bilico. È figlio di un carabiniere e frequenta l’oratorio, ma è ancora adolescente quando le cattive amicizie lo spingono al furto di qualche cassetta di bibite, e finisce in riformatorio. Esce dopo pochi mesi, a metà del 1956: ha solo 17 anni ma non il coraggio di tornare a casa.

Allora scappa in Francia, dove viene fermato dalla Gendarmerie per immigrazione clandestina. In caserma, impaurito dalla prospettiva della prigione, un poliziotto gli butta lì «Tu veux t’engager dans la Légion étrangère?» e lui risponde con un sì. Si arruola nella Legione straniera con un nome falso, Elio Garello, e la matricola numero 115.353. Viene spedito a Sidi Bel Abbés, Algeria settentrionale, nel quartier generale della Légion che in quel momento è il cuore della repressione francese della guerra d’indipendenza.

In prigione ci finisce comunque, sia pure come guardiano, e assiste alle torture dei ribelli. Disgustato, dopo tre mesi fugge di nuovo e viene catturato dai Fellagà, i combattenti per la libertà dell’Algeria asserragliati sulle montagne: sono loro ad aiutarlo a passare la frontiera con il Marocco, dove Girotto s’imbarca e torna in Italia. Rientrato a Torino, finisce nuovamente nei guai per l’incerta partecipazione a una rapina in tabaccheria.

Quindi torna in carcere. Ma qui si converte e quando esce, nel 1963, viene ordinato frate francescano con il nome di Leone, lo stesso del prediletto di San Francesco. Cinque anni dopo diventa sacerdote e va a fare il parroco dalle parti di Omegna, sul lago d’Orta. Nel 1968 l’area, che è piena di imprese, si surriscalda per le lotte di operai e studenti. Lui non ha dubbi, nonostante la tonaca, e si schiera dalla loro parte. Il risultato è che tutti cominciano a chiamarlo «il prete rosso», i parrocchiani si indignano e il vescovo di Novara lo allontana.

È il 1969. E che ti fa, a quel punto, don Girotto? Chiede all’ordine il permesso di andare a predicare ai poveri del Sudamerica, in Bolivia. Ma di certo non è il classico missionario, infatti dopo due anni lo troviamo che lancia bombe a mano. Accade il 21 agosto 1971, a La Paz, nel pieno della fallita insurrezione contro il golpe del colonnello Hugo Suaréz: «Mi trovai in mezzo a un massacro» ha raccontato in una delle sue rare interviste «e un nido di mitragliatrici cominciò a sparare su una folla di bambini e mamme. Che cosa potevo fare? Lanciai una granata. Feci saltare il nido di mitragliatrici».

È una nuova svolta esistenziale, drastica come le precedenti. Girotto diventa tupamaro, guerrigliero, rivoluzionario di professione. Entra in clandestinità con il nome di «David». Per quasi due anni combatte le peggiori dittature militari dell’America Latina, dalla Bolivia al Cile. Abbandona la causa solo quando, nel settembre 1973, il colpo di stato militare di Augusto Pinochet ha la meglio. E mestamente, ancora una volta rientra in Italia.

Ma qui accade la svolta fondamentale della sua vita. Per vie misteriose, si mettono in contatto con lui i Carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Gli propongono d’infiltrarsi nelle Brigate rosse, che hanno appena cominciato con i rapimenti e ormai s’insinuano nelle fabbriche e nelle università. Dimitri Buffa, cronista di razza e tra i pochi riusciti a intervistare Frate Mitra, ricorda che l’operazione «fu ideata da Gustavo Pignero, capitano del nucleo antiterrorismo di Dalla Chiesa. Per lui Girotto era una vecchia conoscenza: non ci mise molto a convincerlo che avrebbe potuto riscattare gli errori di gioventù».

Girotto accetta la missione, con tutti i suoi pericoli. Non rinnega il suo passato di rivoluzionario, dice, ma è fermamente contrario alle Br, cui contesta il velleitarismo e la violenza ingiustificata. I Carabinieri hanno scelto l’uomo giusto: Frate Mitra sa il fatto suo, la nomea di guerrigliero lo aiuta. In breve, entra in contatto con i capi delle Br attraverso un medico piemontese e un avvocato ligure ex capo partigiano, che gli organizzano qualche incontro con Renato Curcio, Alberto Franceschini e Mario Moretti. Interrogato dalla Commissione parlamentare sul terrorismo e le stragi nel 2000, Girotto ricorda alcuni dialoghi con i capi brigatisti. Moretti gli dice: «Siamo così carichi di odio che le nostre pistole sparano da sole». Ma subito Curcio aggiunge: «Sì, però ci spariamo sui piedi, abbiamo bisogno di lui».

Arruolato senza sospetti dalle Br come addestratore alla guerriglia urbana, l’infiltrato spera di arrivare a informazioni su aderenti, basi e depositi delle armi. Invece, già dopo il terzo appuntamento, qualcuno decide che la trappola debba scattare subito. E qui c’è un altro mistero. Perché l’8 settembre 1974, grazie a Girotto, Curcio e Franceschini vengono bloccati dai carabinieri a Pinerolo. Mentre Moretti scampa alla cattura perché all’ultimo qualcuno l’avvisa, quasi certamente una spia al ministero dell’Interno. Ancora oggi c’è chi ipotizza che la mancata cattura del fautore della militarizzazione delle Br e nel 1978 organizzatore del rapimento di Aldo Moro e suo assassino, sia stata teleguidata.

A quel punto, comunque Girotto è l’uomo più a rischio d’Italia. Ma una volta tanto la sua vita non cambia: per proteggersi, racconta, si limita a togliere il suo numero dall’elenco del telefono. Intanto lavora come operaio e diventa anche sindacalista. Ricompare in pubblico nell’aprile 1978 al primo, storico processo a Curcio e ad altri 45 brigatisti. Le udienze di Corte d’assise si svolgono in una Torino presidiata militarmente e sconvolta dalla paura.

Nei mesi precedenti, le Br hanno ucciso il presidente dell’Ordine degli avvocati, Fulvio Croce, solo perché per spirito civile ha accettato la difesa d’ufficio degli imputati. Poco dopo ha fatto la stessa fine Carlo Casalegno, vicedirettore del quotidiano La Stampa. Terrorizzati, 200 cittadini hanno rifiutato la designazione a giudice popolare. In questo clima, Girotto si presenta spontaneamente per deporre contro gli imputati: senza alcun problema, e soprattutto senza scorta, si siede in aula e conferma le sue accuse. Poi torna a lavorare e va in Libia, in Congo, ad Abu Dhabi. Ovunque lo inseguono le voci secondo cui Frate Mitra era riparato all’estero e «viveva da nababbo con i soldi dei servizi segreti».

Ed è questo il suo ultimo enigma: perché mai un eroe civile come lui sia stato additato da tanti – a partire dai giornali di sinistra – come un traditore. Lui ha cercato di protestare, l’ha scritto anche in un libro: «Mi hanno usato e gettato, non hanno apprezzato la mia onestà intellettuale, la disponibilità a un’azione che pochi avrebbero avuto il coraggio di fare. La verità è che nelle istituzioni, nei giornali e nel Partito comunista c’erano tanti amici delle Br, e si preferì farmi passare come un agente provocatore, pagato chi sa da chi». Proteste inutili. Poi su Frate Mitra è sceso il silenzio. Fino alla sua morte.

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