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Tutte le «spine» dell’impero di Putin

Tutte le «spine» dell’impero di Putin

Gli scontri dopo il voto in Bielorussia sono l’esempio più drammatico delle tensioni che agitano molte ex Repubbliche sovietiche. Per il presidente russo è una perdita di controllo che rischia di spostare tradizionali equilibri anche verso la Cina.


La piazza principale di Minsk si chiama Piazza della Vittoria. È imponente, ordinata, circondata da edifici di epoca staliniana. L’attraversa il viale dell’Indipendenza, la cui prosecuzione si trasforma in un viale che conduce direttamente a Mosca. La Bielorussia è l’ultimo Stato dell’ex Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche che, fino alle elezioni di domenica 9 agosto, poteva essere ancora definito un satellite russo. Adesso, però, Vladimir Putin rischia di perdere anche questo. E quella di Minsk di trasformarsi in una nuova Maidan, la piazza nel centro di Kiev dove le proteste del 2013 portarono il presidente filo-russo, Viktor Janukovyc, alle dimissioni. Le differenze sono tante, il comune denominatore è uno: da Putin prima o poi cercano di scappare tutti.

Svoboda, svoboda, libertà, libertà. Lo hanno gridato per ore migliaia di persone in tutta la Bielorussia, alla vigilia e subito dopo la pubblicazione dei risultati di un voto il cui destino, come le cinque volte precedenti, sembrava già scritto da mesi. Aleksandr Lukashenko è stato riconfermato presidente della Bielorussia con un fittizio 80 per cento dei consensi.

La differenza con le volte precedenti è che la società civile dell’ex Repubblica sovietica non è più disposta a non vedere rispettata la volontà popolare, specie in un Paese che sembra essersi svegliato dopo un torpore durato oltre 20 anni e, complice anche la crisi economica e la gestione fallimentare dell’epidemia da Covid-19, ha preso coscienza nel giro di pochi mesi delle gravi limitazioni in materia di diritti fondamentali e libertà di espressione.

Le proteste sono divampate per giorni, con vittime tra i manifestanti, migliaia di arresti e centinaia di persone finite in ospedale. La polizia non si è smentita e ha impiegato i mezzi repressivi più violenti. Così la leader dell’opposizione Svetlana Tikhanovskaja – colei sulla quale il Paese riponeva le speranze di cambiamento per – ha dovuto riparare in Lituania. Cosa succederà in Bielorussia è ancora difficile da prevedere. Lukashenko ha detto chiaramente che le proteste sono state viziate dalle pressioni occidentali e che Minsk non diventerà una seconda Kiev.

Però a Mosca, dove hanno atteso l’esito scontato del voto senza prendere posizione durante la campagna elettorale, se ufficialmente si sono complimentati, dall’altra parte cercano di capire quale sarà il futuro assetto del Paese, che da punto fermo rischia di trasformarsi nell’ennesima spina nel fianco.

Mentre il presidente Vladimir Putin si congratulava con Lukashenko, tutti i principali giornali fedeli al Cremlino solidarizzavano con i manifestanti anti regime. Uno dei motivi di questo «doppio binario» sono le proteste scoppiate nella stessa Mosca la domenica del voto, quando migliaia di bielorussi non sono riusciti a votare nell’ambasciata, che si trova a poche centinaia di metri in linea d’aria dagli uffici del presidente russo.

«Credo che Mosca cercherà di rimodulare il rapporto con Lukashenko» spiega a Panorama Alesia Rudnik, analista politica che da anni monitora le tendenze nel Paese. «Anche se dovesse strizzare l’occhio all’opposizione, è un fatto che il rapporto fra Bielorussia e Russia non sarà più quello di prima».

Fra Putin e Lukashenko le relazioni non erano più serene da almeno un anno; le proteste nel Paese rischiano di avvicinarlo all’orbita occidentale, seppure in modo graduale. Gli Stati Uniti di Donald Trump da mesi seguono con interesse il risveglio della società civile di Minsk. E, comunque, anche senza coinvolgimenti esterni, la politica «euro-asiatica» del presidente russo mostra i suoi gravi limiti da tutte le parti e la Bielorussia che, con le differenze del caso, rischia di trasformarsi in una seconda Ucraina, è solo l’ultimo tassello di una strategia che ha portato Putin a spendere troppe energie fuori dai confini nazionali, minando il suo Paese dall’interno. Se ha appena festeggiato un risultato referendario che gli permetterà di poter essere rieletto fino al 2036 e a metà agosto ha annunciato trionfante che la Russia ha trovato per prima (fra mille dubbi e polemiche) il vaccino contro il Covid-19, il capo del Cremlino deve comunque fare i conti con il fatto che dall’influenza russa stanno scappando tutti quegli Stati che con la Mosca hanno una storia in comune e che dovevano rientrare nella sua sfera.

L’esempio più eclatante è l’Ucraina che si è vista invadere una parte del suo territorio nazionale, la Crimea, per poi vederla auto-annessa alla Russia tramite un referendum non riconosciuto dalla comunità internazionale. Correva l’anno 2014 e Putin era all’apice della sua popolarità, oggi, a sei anni da quei fatti, su quel confine fra Ucraina e Crimea c’è una barriera, segno che Kiev ha perso. Eppure, proprio questo avvenimento ha segnato uno spartiacque decisivo nella politica estera del Presidente, dove i passi falsi non sono mancati e alcune mosse rischiano di rivoltarsi contro di lui.

L’invasione dell’Ucraina è stata considerata come un avvertimento da parte di molte delle ex Repubbliche sovietiche. A questo va aggiunta la crescente influenza che le teorie del politologo Aleksandr Dugin, sostenitore di un’ideologia che restituisce un’identità nazionale e dignità ai russi delusi e umiliati dalla perdita dell’Urss, e che punta alla riaffermazione di Mosca nella regione euroasiatica. Tutti aspetti che hanno portato gli ex satelliti dell’Asia centrale ad allontanarsi da quello che fino a pochi anni fa era l’unico Paese di riferimento per la regione.

Ha iniziato il Kazakistan, quello con l’economia più forte e sviluppata, Uzbekistan, Kirghizistan e Tagikistan lo hanno seguito a ruota. Il risultato è stato che la Russia ha perso terreno e lo ha guadagnato la Cina, che ha cominciato a stringere accordi commerciali e, negli ultimi due anni, anche forniture militari ed esercitazioni congiunte, occupando posizioni sempre più di rilievo in Stati un tempo inaccessibili e che sono stati conquistati soprattutto dagli investimenti e dalle possibilità di sviluppo. La situazione impensierisce il presidente Putin, costretto però ad abbozzare per via di quel delicato equilibrio di rapporti e interessi che lega attualmente Mosca a Pechino.

«L’Asia centrale» dice a Panorama Andrej Suslov, docente di Relazioni internazionali a Mosca, «è un capitolo molto fragile. La rottura dell’asse fra Mosca e Pechino avrebbe ripercussioni dirette sull’intera area, che potrebbero anche degenerare in conflitti armati, con la Russia pronta a prendere le parti delle ex Repubbliche. Sarebbe un punto di non ritorno, quindi entrambe le parti sono molto prudenti nel non superarlo. Eppure segnali di nervosismo si avvertono».

C’è poi il Caucaso, con le tre repubbliche indipendenti che hanno preso da tempo, ognuna a modo suo, la propria strada. L’unica che ha mantenuto un rapporto forte con la Russia è l’Armenia, che è anche la più povera delle tre e dipendente economicamente da Mosca. Con la Georgia i rapporti sono compromessi dalla guerra in Ossezia del Sud nell’agosto 2008. L’Azerbaigian, forte delle sue risorse energetiche può permettersi una politica autonoma, dove Mosca è un sì partner, ma certo non esclusivo. Un presidente che voleva ricreare un sogno imperiale e che invece è riuscito a isolare ancora di più il suo Paese.

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