A New York i medici hanno effettuato il primo «trasferimento» di rene da un maiale ingegnerizzato in una paziente cerebralmente morta. L’obiettivo è ridurre il drammatico divario fra carenza di organi e chi li attende. Eppure anche oggi, aspettando i «pezzi di ricambio» da altre specie, molto si può fare…
Di tutti i modi in cui una persona può contribuire al progresso della scienza, una donna americana di 55 anni (l’età è l’unica cosa che si sa di lei) ha scelto probabilmente il più singolare: farsi trapiantare, lo scorso ottobre, un rene di maiale geneticamente modificato. «Scelto», in realtà, non è nemmeno il termine giusto, dal momento che era cerebralmente morta. Il suo cuore batteva solo perché alimentato da una macchina, alla New York University Langone Health.
A decidere sono stati i familiari, secondo le volontà della donna, che in vita era una donatrice di organi. I suoi reni, però, erano troppo deteriorati per essere «regalati» a qualcuno. Nel reparto dell’ospedale americano, dobbiamo immaginarci una scena simile: ai vasi sanguigni posti all’esterno del corpo della paziente (così da poterne seguire in diretta l’evoluzione) i medici hanno attaccato il rene del maiale, ingegnerizzato in modo da essere privo del gene alpha-Gal, responsabile del rigetto iperacuto. Insieme al rene, è stato «trapiantato» anche il timo dell’animale, per «educare» il sistema immunitario dell’ospite ad accettare l’organo estraneo. Il rene animale è rimasto collegato per 54 ore, durante le quali ha svolto egregiamente il suo mestiere, filtrando scorie nel sangue e producendo urina. Dopo di che, il test è stato dichiarato «successfull», andato a buon fine, e la paziente staccata dai macchinari.
Si tratta del primo esperimento di xenotrapianto (ossia da una specie all’altra) effettuato senza rigetto in un essere umano, sia pure dichiarato morto in base a criteri neurologici (per ovvi motivi etici, non si può fare, almeno per ora, su un paziente vivo). Le reazioni nel mondo scientifico sono state entusiastiche. «Un formidabile passo avanti» ha dichiarato alla Mit Technology Review il genetista inglese Darren K. Griffin dell’Università del Kent. «Una svolta notevole» ha detto Dorry Segev, chirurgo dei trapianti alla Johns Hopkins School of Medicine di Baltimora. Su Science News, concorda Peter Cowan, immunologo all’Università di Melbourne, Australia: «Un esperimento che incoraggia i “trial” clinici di trapianti da animale a uomo».
Ricevere un rene suino ingegnerizzato fa parte di uno scenario ancora lontano. Possibile, soprattutto alla luce dell’intervento a New York, ma non dietro l’angolo. E lo si potrà fare solo con i maiali, perché hanno organi di dimensioni simili ai nostri e sono facili da allevare; e poi ne facciamo già salami e cotechini, quindi sollevano meno problemi etici di altre specie più affini a noi, come i primati: sarebbe come sacrificare un parente, evolutivamente parlando, per prelevarne gli organi.
«È un esperimento importante, in cui il rigetto iperacuto, che avviene quasi sempre nei trapianti tra specie diverse, non si è verificato» dice Antonio Amoroso, docente di genetica medica e coordinatore del Centro Regionale Trapianti del Piemonte (una delle regioni più attive, con una media di 450 interventi annui). Il rigetto iperacuto, nel giro di pochi minuti, è impressionante: «Le cellule del maiale esprimono molecole di superficie composte da zuccheri verso cui l’uomo ha anticorpi naturali. L’organo viene subito distrutto e va in necrosi».
Altro rischio da azzerare, se un domani ricevessimo organi di maiali «ogm» (o pelle e nervi, come racconta Science), è quello dei virus tipici di questi animali che, facendo il salto di specie, potrebbero attecchire nell’organismo umano, diventando letali. Oggi, sempre con l’ingegneria genetica, gli scienziati riescono a disattivarli, ma si tratta di risultati parziali.
Perché andare a prendere, modificare e trasferire organi animali, scongiurando rigetti drammatici e virus «alieni», di cui, peraltro, non abbiamo alcun bisogno? «Chiaro che la finalità è ridurre il divario fra chi aspetta un organo per vivere e quelli attualmente a disposizione» risponde Amoroso. «Lo xenotrapianto può essere, in linea di principio, un modo per superare questa impasse».
Nel mondo, nonostante i giganteschi passi avanti nella medicina dei trapianti, le persone che aspettano un organo sono ancora troppe: in Europa e Usa, non più del 20 per cento di chi lo attende arriva all’intervento entro l’anno. «Non riusciremo mai a soddisfare la carenza di organi con quelli umani» ha detto, commentando la notizia dello xenotrapianto americano, John Scandling, nefrologo alla Stanford University. «C’è un limite al numero di donatori deceduti disponibili».
L’anno scorso, in Italia, i nuovi pazienti entrati in lista di attesa sono stati oltre 4 mila. E la pandemia non ha aiutato. «Nel 2020 c’è stato un calo nelle donazioni del 10 per cento, anche se meno che in Spagna, Paese leader nei trapianti, e in Francia» afferma Massimo Cardillo, direttore del Centro nazionale Trapianti. «Il Covid ha impattato soprattutto nelle terapie intensive, dove si generano le donazioni. Per fortuna nel 2021 l’attività è ripartita, quasi ai livelli ante pandemia. La rete dei trapianti in Italia è solida, sia pure con forte disomogeneità fra le regioni».
In Italia abbiamo 22 donatori per milione di abitanti, ma è una media: mentre in Toscana sono 45 su un milione (quasi come in Spagna), alcune regioni del Sud non vanno oltre i 10-12. I pazienti in attesa di un organo sono a oggi 8.500, di cui 6 mila aspettano un rene. Aumentano sempre più anche le persone che hanno bisogno di un fegato nuovo. Il motivo? Un tempo questo trapianto era indicato per le cirrosi epatiche di natura alcolica o virale. Oggi si fa anche nel caso di cancro o metastasi al fegato.
Ancora: se la media delle opposizioni a donare è del 30 per cento, al Nord siamo intorno al 22, al Sud arriva al 40. Il rifiuto non nasce quasi mai da una forma di «egoismo corporeo» o da resistenze di tipo religioso (chi mai crede, oggi, che nel giorno del Giudizio resusciteremo come cadaveri accessoriati di tutto?). Bensì dal timore di infrangere, specie quando il no viene dai parenti, l’integrità del loro caro. O dal sospetto che questi non sia davvero «morto». «L’opposizione nasce da una cattiva informazione» risponde Cardillo. «I familiari talvolta non comprendono come sia possibile che il cuore batta, anche se il loro familiare è morto. Ma nella morte non è il cuore a fermarsi, bensì il cervello; che una volta deceduto non riparte mai. Bisogna spiegarlo molto bene».
Negli ultimi 50 anni, si è arrivati a trapiantare quasi di tutto, comprese faccia e mani. E persino l’utero. «In Italia, lo si è fatto per la prima volta l’anno scorso al Policlinico di Catania, secondo un programma sperimentale» spiega Amoroso. «Ora si sta avviando un progetto con più ospedali, nelle donne che nascono senza utero per un difetto congenito o perché è stato loro asportato da giovani».
Negli organi più «tradizionali», per così dire, si è passati da percentuali di fallimento molto alte – mezzo secolo fa – a risultati straordinari. «La sopravvivenza dei pazienti supera il 90 per cento sia per rene, fegato e cuore» ricorda Cardillo. «Risultati buoni ma meno per il polmone, 60-70 per cento, perché è un organo molto delicato, a diretto contatto con l’esterno e più suscettibile a infezioni virali».
Cardillo ci tiene a sottolineare come, nei trapiantati, la terza dose del vaccino Covid debba essere somministrtata in fretta: sono soggetti vulnerabili e, assumendo farmaci immunosoppressori (contro il rischio di rigetto), le loro difese sono più fragili. «Immunizzarsi riduce l’eventualità di infezione di cinque volte rispetto a un trapiantato non protetto». Rispetto al passato, inoltre, oggi è assai più ampia la popolazione che può donare. Anche anziana. Più che l’età, conta il modo in cui quell’organo ha «vissuto»: i polmoni di un 60enne che non ha mai fumato sono più in forma di quelli di un tabagista 30enne. E così per reni o fegato, quest’ultimo poi assai sensibile a stile di vita e dieta: un fegato giovane può essere inutilizzabile perché «grasso», uno di 90 anni magari è perfetto (senza contare che è un organo che si rigenera nel ricevente). Discorso diverso per il cuore: se è vero che può emozionarsi anche dopo tanti anni, è più sensibile all’usura del tempo, e i donatori di oltre 70 anni sono l’eccezione e non la regola.
Se il futuro dei trapianti andrà avanti anche grazie a specie diverse da noi – del resto già utilizziamo tessuti animali, e i maiali forniscono da tempo valvole cardiache – la strada principale da percorrere per salvare chi aspetta un «pezzo di ricambio» resta quella altruistica. «Il trapianto è figlio della donazione» conclude Amoroso. «Mentre in altri settori della medicina si riesce a sopperire con farmaci, vaccini, strumenti, tecnologie, se non c’è l’organo non si può fare niente».
