Nei test per mettere a punto nuovi farmaci, le aziende non hanno più l’obbligo di utilizzare animali. Significa che questo tipo di sperimentazione è ormai inutile? Sarebbe bello, purtroppo non è così (tranne alcune eccezioni). Esistono metodi alternativi, ma la strada verso l’abbandono dei topolini è ancora lunga.
Quando viene la febbre e ci imbottiamo di paracetamolo. Quando scopriamo di avere il colesterolo alto e il medico ci prescrive le statine. Quando ci viene un’infezione e prendiamo gli antibiotici. Quando nel corso di una pandemia ci facciamo vaccinare. Quando abbiamo bisogno di un trapianto, o dobbiamo affrontare una chemioterapia. Ecco, in tutti questi casi, da banali malanni a condizioni estreme, a curarci e spesso a salvarci la vita sono terapie e medicinali che, prima di essere immessi sul mercato, sono stati testati sugli animali.
In passato (quando non c’erano normative per la loro tutela né la sensibilità odierna) era più o meno un massacro. Allora si faceva davvero «vivisezione». Oggi il termine, che per il suo impatto emotivo viene sempre utilizzato da chi è contro questo tipo di test, è improprio. Da parecchio non si sezionano più creature viventi senza anestesia, infliggendo inutile dolore. La domanda è comunque lecita: abbiamo ancora bisogno di testare farmaci o tecniche mediche su pesciolini, vermi, topi, ratti, criceti, conigli, a volte cani, in rari casi primati? Oppure abbiamo finalmente alternative per cui questa sperimentazione non ha più molto senso? Negli Stati Uniti, la Fda ha stabilito che d’ora in poi le aziende farmaceutiche, nella loro ricerca di principi attivi, non saranno più obbligate (come imponeva una legge del 1938) a testarne prima sicurezza ed efficacia sugli animali. Lo potranno fare se lo riterranno necessario, ma non sarà un obbligo. Sarà poi la Fda che, prima di dare l’ok, deciderà se richiedere ulteriori test. Novità assai apprezzata dagli animalisti, ma non una rivoluzione. «Joe Biden ha semplicemente caricato la responsabilità della decisione sulle spalle della Fda, rimuovendo le aziende dall’obbligo» chiarisce Giuliano Grignaschi, segretario generale della piattaforma scientifica Research4life (che unisce enti di ricerca, ospedali, organizzazioni non profit, università, associazioni di categoria). «Il governo americano ha fatto ciò che in Europa esiste dal 2010, dove sono gli enti regolatori a decidere quando le multinazionali del farmaco presentano i dossier».
È un’ammissione implicita che la ricerca può saltare il passaggio sugli animali? Sarebbe bello, ma non è così. Anche se oggi si tenta di arrivare a potenziali cure senza iniettare sostanze, o indurre patologie simili a quelle umane, o sperimentare tecniche chirurgiche in altri esseri viventi, gli stabulari non si svuoteranno tanto presto. «Certo, il percorso di approvazione di un farmaco si è modificato nella storia, e man mano che la tecnologia va avanti alcuni metodi, anni fa obbligatori, possono essere sostituititi da test alternativi» dice Grignaschi. E quali sarebbero? «Per esempio per la tossicità acuta i test sono fatti al computer con algoritmi che incrociano tutti i dati esistenti al mondo degli ultimi 50 anni riguardanti gli effetti tossici di una certa sostanza chimica, così da poter predire quelli futuri». Oppure vengono utilizzate colture di cellule ingegnerizzate (specifiche di un certo organo o tessuto) fatte crescere su microchip o in bioreattori. Metodi molto validi in tossicologia, ed è la ragione per cui nella cosmesi il ricorso ad animali è vietato da anni.
L’intelligenza artificiale, onnipresente ormai in tanti ambiti (con esiti più o meno apprezzabili), è in questo indubbiamente «dalla parte» degli animali. «Mi stupisco un po’ che gli Stati Uniti, in genere restii ad assecondare gli animalisti, abbiano preso questa decisione» dice Gianni Sava, ordinario di farmacologia e coordinatore di Sif Magazine della Società italiana di farmacologia. «Ma lo spiego proprio con il fatto che la AI oggi ci permette di superare molte fasi nei test clinici, disponiamo di banche dati enormi in cui pescare informazioni confrontando molecole tra loro. Anche se questo non riduce l’importanza dell’animale nello sviluppo della scienza. Un conto è ottenere una molecola, un conto studiare una patologia».
Qui le cose si fanno complicate, troppo anche per volenterosi algoritmi. Una coltura cellulare in vitro può dire alcune cose, poi smette di «parlare». Una malattia (che sia un tumore, un’alterazione cardiaca o l’Alzheimer) si sviluppa in un tessuto o un organo all’interno di un corpo, con il quale interagisce. Un «cantiere in corso» in cui bypassare l’animale non è pensabile. «Ci sono apparati di cui non sappiamo quasi nulla, come il sistema nervoso centrale» continua Sava. «Lì avvengono fenomeni non simulabili con estrapolazioni di preparati. Un organismo animale pone interrogativi complessi e fa emergere imprevisti indispensabili per l’avanzare delle conoscenze».
Parlando di cervello, solo così si capisce come poter curare l’anziano con la demenza senile, il bambino con una malattia neurodegenerativa, o il paziente con trauma cranico che non riesce più a muoversi. Nel caso delle paralisi, le sperimentazioni si fanno prima sulle scimmie, poi sui volontari. Un anno fa aveva destato grandi polemiche il caso di Neuralink: la società di Elon Musk che aveva impiantato microchip nel cervello di primati causando, secondo gli attivisti del Physician Committee for Responsible Medicine, «traumi, infezioni ed emorragie cerebrali» fino alla soppressione delle scimmie.
Neuralink, pur non negando la morte degli animali (in genere tutti vengono «sacrificati» dopo gli studi) ha replicato dicendo che «ogni nuovo dispositivo medico o terapia deve essere testato sugli animali prima di poter essere eticamente sperimentato sugli esseri umani. Noi siamo impegnati a lavorare con gli animali nel modo più umano possibile e non vediamo l’ora che arrivi il giorno in cui non saranno più necessari». Difesa sbrigativa, ma che fotografa la realtà. La prospettiva di collegare direttamente il cervello a un dispositivo avrebbe potenziali enormi in campo medico. E nessuna cellula galleggiante in coltura potrebbe dare le stesse risposte.
Tra gli avanzamenti scientifici più promettenti ci sono anche gli organoidi, un tempo impensabili: aggregati cellulari che, a partire da cellule staminali, diventano repliche tridimensionali in miniatura di organi umani (sono molto usati in campo oncologico). Suona fantastico. E, in parte, lo è. «L’organoide oggi è quello che più si avvicina a un sistema complesso in vivo» spiega Sava. «Ma è pur sempre isolato, senza un organismo intorno». Scimmie a parte, negli stabulari degli scienziati vengono allevati per il 90 per cento topi e ratti, gli stessi che, nelle città, cerchiamo di annientare senza che nessuno pianga la loro sorte. «I cani oggi si usano molto poco e meno ancora i primati, importanti però negli stadi finali di alcuni farmaci, come i vaccini, per valutarne sicurezza ed eventuale tossicità. Certo, esistono gli organoidi, utili per capire se una certa sostanza chimica provoca un danno alle loro cellule, ma non sono vascolarizzati, manca l’organismo che le contiene» precisa Ariela Benigni, segretario scientifico e coordinatore della Ricerca nelle sedi di Bergamo e Ranica dell’Istituto farmacologico Mario Negri. «Non solo. L’atrofia muscolare spinale, per esempio, ha all’origine un’alterazione nel Dna, con i test sugli animali possiamo capire come correggere il gene. E la stessa cosa vale per altre malattie genetiche. Senza contare il settore dei trapianti. Io mi occupo di quelli di rene, ebbene, il primo trapianto nell’uomo con il rene di un gemello identico è potuto avvenire, nel 1954 a Boston, solo dopo l’esperienza su 600 cani. E il futuro degli xenotrapianti passa dalla sperimentazione animale».
In Italia, come ovunque (ma persino un po’ di più) si cercano in ogni caso metodi alternativi. Noi impieghiamo 500 mila animali, in Francia e Germania 2 milioni. «Siamo più bravi, o forse facciamo meno ricerca di base» riflette Benigni. «In ogni caso mettiamo in atto tutto quanto è previsto e obbligatorio per il loro benessere. Esistono procedure precise, non è che lo scienziato decide per conto suo». Le regole dicono che gli stabulari devono avere personale formato, un rigoroso controllo di temperatura e ricambio d’aria, il mantenimento dei ritmi notte/giorno, il ricorso ad antidolorifici e anestetici. E dal 2014 non si possono più allevare gatti, cani e primati per la ricerca. «La si fa su esemplari importati, il che è peggio perché vengono sottoposti allo stress del trasporto» commenta Benigni.
Oggi, nel nostro Paese, i test su topi, ratti o altre specie passano dal vaglio dell’Organismo per il benessere animali che, spiega Sava, «valuta come fa il comitato etico di un ospedale: analizza la qualità dello studio, l’obiettivo che si vuole ottenere, se servirà all’avanzamento della scienza. E si richiede che l’animale sia il più semplice e utile per quel risultato: non scimmie o cani, ma topi o vermi. Insomma, la specie con lo sviluppo neurologico più basso capace di fornire la risposta attesa». Che i ricercatori non siano sadici senza controllo che maneggiano creature viventi come fiale (e se si rompono pazienza), lo dimostra anche un lungo articolo appena pubblicato su Science, dal titolo «Caring for research animals can take a severe mental toll» («Prendersi cura degli animali da laboratorio può avere serie ricadute psicologiche»), in cui si dice che: «nove ricercatori su dieci, a un certo punto della loro carriera, avvertiranno compassione e fatica da stress più del doppio rispetto a chi lavora nei reparti di terapia intensiva degli ospedali. È una delle ragioni per cui abbandonano la professione».
I topi però non sono uomini, è un’altra obiezione (fondata) spesso ripetuta da chi è contrario alla sperimentazione animale; ed è, in effetti, il motivo per cui tante molecole che nei roditori da laboratorio sembrano promettenti, una volta testate su volontari umani falliscono. La rivista online The Atlantic riporta, a questo proposito, il caso di un farmaco, il rolipram, che su ratti, porcellini d’India e scoiattoli pareva molto efficace per la depressione. Quando però la sperimentazione passò all’uomo, i pesanti effetti collaterali spensero gli entusiasmi. Oggi si sa che topi e ratti nella malattia psichiatrica aiutano poco. Ma in altri settori, come nelle patologie cardiovascolari e nei tumori, hanno portato, e lo fanno tuttora, a indubbi passi avanti. «Il topo non è un uomo, è vero. Ma permette di avvicinare il principio attivo all’uomo» afferma Sava.
Infine, i costi. Fare ricerca sugli animali, sostengono gli oppositori, è molto meno dispendioso che usare tecniche alternative, ed è per questo (bieco) motivo che la scienza non vi rinuncia. «Ma non scherziamo» risponde Sava. «Il modello animale è dieci volte più impegnativo: per il loro mantenimento e benessere, per la manutenzione di strutture supercontrollate, per il costo del personale, compresi veterinari 365 giorni l’anno. E per l’impatto emotivo. Poterne fare a meno sarebbe davvero un sogno. Ci arriveremo, ma la strada per ora è ancora lunga».