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Alla ricerca della nuova Terra

Alla ricerca della nuova Terra

A novembre sarà messo in orbita il telescopio James Webb, il più grande mai costruito per osservare i fenomeni cosmici. E grazie al suo enorme «specchio» potrà andare a caccia di corpi celesti con una caratteristica unica: quella di ospitare forme di vita.


Stiamo entrando nel periodo più entusiasmante della ricerca astronomica. Quando nel prossimo novembre il telescopio James Webb, il più grande telescopio orbitante di tutti i tempi, verrà lanciato nello spazio avremo tutte le tecnologie a disposizione per dare risposta a questa domanda: esiste un altro pianeta come la Terra che ospita altre forme di vita? Tanto che, in un’audizione della Nasa al Congresso degli Stati Uniti, l’astronoma canadese Sara Seager, nota per i suoi studi pionieristici sui pianeti extrasolari e le loro atmosfere, ha affermato: «Grazie al James Webb Telescope, per la prima volta nella storia dell’umanità trovare le prove di pianeti abitati da forme di vita simili alla nostra è alla nostra portata; credo che ciò avverrà entro i prossimi dieci anni».

Queste parole di Seager rivolte al chairman del Congresso segnano l’inizio del documentario The Hunt for Planet B («Caccia al pianeta B») del regista americano Nathaniel Kahn, che verrà presentato in anteprima a Milano al settimo Festival internazionale del documentario «Visioni dal Mondo» (dal 16 al 19 settembre) e che sarà visibile online. L’opera racconta gli obiettivi, le speranze, gli sforzi delle scienziate della Nasa e dell’Agenzia spaziale europea e canadese che hanno contribuito alla realizzazione del James Webb Telescope e che saranno in prima linea nella ricerca di un pianeta simile alla Terra.

Se l’attuale telescopio Hubble cattura luce nella parte dello spettro del visibile e dell’ultravioletto, il James Webb cercherà la debolissima luce infrarossa emanata da oggetti molto lontani, cioè una luce di una lunghezza d’onda che non possiamo vedere con i nostri occhi ma che si può potenzialmente sentire come calore sulla pelle. Lo farà con uno specchio di 6,5 metri di diametro, 2,5 volte maggiore di quello del suo predecessore Hubble, e su un’orbita non intorno alla Terra ma intorno al Sole, a una distanza di circa un milione e mezzo di chilometri da noi.

Date le enormi distanze astronomiche e il tempo necessario alla luce per giungere la Terra, le maggiori dimensioni del telescopio James Webb rispetto ad Hubble significheranno maggiore capacità di andare indietro nel tempo, cioè di vedere oggetti così come erano in un’epoca ancora più lontana, fino a 100 milioni di anni dopo il Big Bang. Vedremo cose mai viste, come la formazione delle galassie e dei buchi neri al loro centro, l’interno delle nubi di polveri interplanetarie, la nascita di stelle e pianeti, l’evoluzione della materia oscura all’interno delle galassie, e potremo ottenere informazioni sulle atmosfere dei pianeti più favorevoli alla vita.

A partire dal 1992, anno in cui furono scoperti tre corpi celesti in orbita intorno a una stella di neutroni chiamata Lich, telescopi sempre più sofisticati hanno individuato un numero crescente di esopianeti, cioè pianeti extrasolari che ruotano intorno a stelle diverse dal nostro Sole e che in alcuni casi potrebbero ospitare la vita. Il numero di quelli scoperti, cresciuti dai 20 del 2000 ai circa 4 mila di oggi, rappresenta solo un’infinitesima parte del totale di quelli esistenti nell’universo visibile.

Quest’ultimo conta circa 100 miliardi di galassie che a loro volta contengono ognuna dai 10 ai 100 mila miliardi di stelle, attorno a molte delle quali ruotano pianeti. Numeri che è anche difficile immaginare. Solo nella Via Lattea il numero totale di pianeti extrasolari è di circa 100 miliardi, di cui molti potrebbero soddisfare le condizioni necessarie per la vita: orbitare attorno a una stella non troppo attiva, e a una distanza tale da avere temperature tra zero e 100 gradi Celsius, avere una massa abbastanza grande da trattenere un’atmosfera, possedere un’idrosfera – un ambiente liquido come un oceano – e campi magnetici che facciano da scudo ai raggi cosmici che bombardano di continuo dallo spazio.

«È come se fossimo alla ricerca di pesci nell’oceano e avessimo scandagliato solo la quantità di acqua contenuta in un bicchiere» dice Jill Tarter, astronoma del Seti Institute, una delle ricercatrici ripresa nel documentario. «Il James Webb Telescope ci consentirà di esaminare l’equivalente di un vasto specchio d’oceano». I princìpi guida di queste ricerche non sono difficili da comprendere. Se il telescopio rivela una riduzione della luce emessa da una stella vuol dire che c’è un pianeta che vi orbita attorno. Infatti, il corpo celeste interponendosi tra la stella e il telescopio fa da schermo alla radiazione. D’altra parte, la presenza di forme di vita su un pianeta viene dedotta dall’«analisi spettrale» della luce riflessa dalla sua atmosfera.

Secondo Clara Sousa-Silva, astronoma e divulgatrice scientifica dell’Università di Harvard, un indizio del pianeta B, quella sorta di pianeta gemello della Terra abitato da forme di vita, potrebbe essere la presenza di una molecola chiamata fosfina. Il documentario mostra Sousa-Silva, protagonista delle ricerche sulla vita del James Webb Telescope, che tiene in mano un modellino in plastica di questa molecola e spiega: «La presenza di ossigeno nell’atmosfera di un pianeta non è il solo indizio della possibile presenza di vita. Un altro, su cui ci stiamo concentrando, è la presenza di una molecola chiamata fosfina che viene prodotta da organismi anaerobici, microbi che non hanno bisogno di ossigeno per vivere. Ma questa molecola può anche essere indizio di forme di vita più complesse magari giunte a un grado di sviluppo tecnologico differente dal nostro nel periodo di tempo che stiamo osservando». Il percorso è dunque affascinante.

Di pianeti B candidati ce ne sono diversi. Proxima b, che ruota attorno alla stella Proxima Centauri, è il pianeta con le condizioni per la vita più vicino a noi. A una missione che corresse alla velocità del 15-20 per cento di quella della luce occorrerebbero circa quattro anni per scattare foto su questo pianeta e inviarle sulla Terra. C’è poi GJ1214b, un corpo celeste molto caldo che si muove attorno a una nana rossa, interamente coperto da oceani e da un’atmosfera densa di vapori; oppure Kepler- 452b, una «super-Terra» che orbita intorno a una stella molto simile al Sole. Gliese 3323 b, distante circa 17 anni luce da noi, ha condizioni simili a quelle terrestri pur avendo una massa doppia, Kepler-438b, a 472 anni luce da noi, ruota attorno a una nana rossa e potrebbe avere condizioni di abitabilità, se non fosse per le violente tempeste solari che rendono difficile la presenza di vita simile alla nostra.

L’indiziato pianeta B per eccellenza, sul quale si concentrerà il telescopio James Webb, è il cosiddetto Trappist-1e, uno dei sette pianeti orbitanti intorno a una piccola stella distante dal Sole circa 40 anni luce. I modelli matematici suggeriscono che il corpo celeste potrebbe avere oceani sulla sua superficie e, data la distanza dalla sua stella, essere abbastanza caldo. L’«occhio» di James Webb dovrà confermare l’eventuale presenza di grandi percentuali di ossigeno nell’atmosfera di questo pianeta, una congettura basata sull’ipotesi che nella sua fase di formazione parte dell’acqua in superficie evaporata sia stata scissa da raggi ultravioletti nei suoi elementi costituenti. Di questi solo l’ossigeno sarebbe stato trattenuto in atmosfera, mentre l’idrogeno, più leggero sarebbe sfuggito alla forza di gravità. Visto che Trappist-1e rivolge sempre lo stesso emisfero alla sua stella (rotazione sincrona), una delle sue facce è sempre illuminata, l’altra buia. Così possiamo immaginarlo abitato solo in un emisfero, quello della luce. O abitato in entrambi gli emisferi: il regno della luce e quello delle tenebre. Ma qui l’astronomia diventa fantascienza. n

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