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Migranti dalla Libia, la faticosa strategia anti partenze

Nonostante una situazione politica instabile e, adesso, la tragica alluvione di Derna, il Paese cerca di contrastare il traffico di migranti. Nel 2023, sono state riportate a terra oltre 10 mila persone dirette verso l’Italia.

«Il 23 settembre unità delle Forze di appoggio nella regione occidentale, durante un raid alla ricerca delle “case sicure” dei trafficanti di esseri umani a Zuwara, hanno scoperto un ampio gruppo di migranti senza documenti comprese donne e bambini» è uno degli ultimi dispacci delle operazioni per ridurre le partenze dalla Tripolitania verso Lampedusa. Il 27 agosto, dall’altra parte del Paese diviso a metà, la Cirenaica, «le Forze speciali di Marina hanno intercettato un barcone diretto in Italia, al largo di Kambut, con 45 migranti egiziani e pachistani. L’imbarcazione è stata scortata a Tobruk».

Il blog no profit Migrant rescue watch documenta sul social network X l’offensiva contro i trafficanti di uomini, che sta riducendo le partenze verso l’Italia. Fino al 15 settembre sono sbarcati da noi 34.714 migranti provenienti dalle coste libiche (5.831 recuperati dalle Ong del mare) rispetto agli 87.996 partiti dalla Tunisia. Pesa anche la «tariffa» che da questo Paese è più conveniente – tra 400 e 600 euro per Lampedusa, la metà rispetto alla rotta libica. In ogni caso, le forze anti-immigrazione sia in Tripolitania sia in Cirenaica, non vanno per il sottile: i barconi deii trafficanti vengono dati alle fiamme in mare e la Guardia costiera gira dei video come monito. Il 30 agosto, pere esempio, unità speciali della Marina hanno fatto irruzione «in un cantiere clandestino a Ras Al Tin (a est di Derna) dove si costruiscono le barche dei migranti. Il capannone è stato demolito». Le immagini mostrano alcune squadre che danno alle fiamme manufatti di legno e altro materiale. L’ambasciatore italiano in Libia, Gianluca Alberini, conferma che «in Tripolitania si registra una stabilizzazione delle partenze. I numeri provano un maggiore impegno contro gli imbarchi illegali. Uno dei motivi è che abbiamo fornito i mezzi necessari». Si calcola che in Libia ci sia un milione di stranieri. Non tutti vogliono venire in Italia, ma chi si affida ai trafficanti è considerato un clandestino da rinchiudere nei centri di detenzione.

Alla Guardia costiera di Tripoli l’Italia ha consegnato in agosto tre nuove motovedette «Classe 300» finanziate dal fondo Ue per l’Africa. Le unità bianche, nuove di zecca, con il rinforzo arancione attorno allo scafo sono state dirottate per fronteggiare il Vajont di Derna. Fra le quasi quattromila vittime accertate, centinaia vengono recuperate dal mare che, dopo settimane, riporta cadaveri verso la costa.

Nel porto di Derna abbiamo visto ormeggiate due guardacoste «Classe Corrubia» arrivate dal nostro Paese e altre navi di Tripoli, che conta su una flotta di una quindicina di unità, una decina fornite dall’Italia. Nella base di Abu Sitta a Tripoli abbiamo sempre ormeggiata una nave della Marina militare e opera una squadra della Guardia di finanza. «Aiutiamo la flotta libica a mantenere l’operatività anche nel contrasto all’immigrazione illegale» spiega il capitano di fregata Vincenzo Moretti, comandante di nave «Capri», che con 54 uomini di equipaggio ha concluso da poco il turno di 120 giorni. La lodevole iniziativa di correre in soccorso a Derna, disastro che unisce la Libia divisa da anni, rischia però di sguarnire la Tripolitania da dove è partita per l’Italia la maggioranza dei migranti (18.333 fino al 15 settembre). I trafficanti di uomini hanno subito approfittato della missione umanitaria per lanciare più barconi verso l’Italia da Zuwara e Garabuli.


Fino a oggi sono stati riportati a terra 10.665 migranti, ma anche in Cirenaica la catastrofe di Derna potrebbe favorire le partenze dopo i 16.681 già imbarcati dai trafficanti e arrivati sulle coste italiane pure con grossi e vetusti pescherecci, che hanno imbarcato fino a 700 persone. In Cirenaica comanda il generale Khalifa Haftar volato il 26 settembre in visita a Mosca dall’alleato russo, che punta a una base navale in Libia. L’anziano Haftar, però, sta delegando il potere ai figli a partire da Saddam, che fin dai primi giorni si è visto a Derna in un fuoristrada nero scortato da uno corteo di veicoli con tanto di jammer, i disturbatori di frequenza per inibire le trappole esplosive. La bomba d’acqua ha trasformato interi quartieri in un paesaggio lunare, dove si aggirano i familiari dei sopravissuti alla forsennata e spesso inutile ricerca dei propri cari seppelliti da fango e detriti. «Quando è iniziato a piovere ho lasciato a casa mia moglie e nostra figlia di 10 mesi per andare a Tobruk dove insegno inglese» racconta Farid fra le macerie. «Le autorità locali dicevano che non era niente di grave e da un’altoparlante invitavano a rimanere in casa invece che scappare. Ho perso tutta la famiglia compresi i miei fratelli». Il professore, dopo aver trovato i corpi, si dispera: «Negli ultimi anni abbiamo vissuto troppe tragedie: prima la rivolta che ha portato via la buonanima di Gheddafi, poi i terroristi islamici, ma una catastrofe così mai!».

La popolazione inferocita è scesa in piazza, dando alle fiamme l’abitazione del sindaco deposto con l’accusa di non aver fatto eseguire la manutenzione delle dighe. «Né Est, né Ovest, Libia unita» è uno degli slogan che hanno scandito i manifestanti. Per assurdo, la tragedia di Derna potrebbe favorire l’unificazione della nazione nordafricana. «La gente è stanca di violenza, anarchia e vuole una vita normale dopo il cessate il fuoco fra Tripolitania e Cirenaica e l’apertura dei collegamenti fra est e ovest» fa notare una fonte occidentale in Libia. L’Italia è in prima linea negli aiuti a Derna. La protezione civile ha stabilito subito un campo base, diventato centro di coordinamento europeo; le squadre dei Vigili del fuoco dal Lazio e dalla Toscana hanno scavato fra le macerie. «Le elezioni che dovevano tenersi già due anni fa sono ancora lontane» sostiene la nostra fonte. «Alcuni diplomatici a Tripoli sono convinti che se il figlio di Gheddafi, Seif al-Islam, si presentasse al voto potrebbe anche vincere».

Cresce la nostalgia del Colonnello, di ordine, sicurezza e stabilità economica del passato regime, anche se a Tripoli si nota solo il sistema di controllo da Corea del Nord sui giornalisti. Non ci si può muovere da soli, ma scortati da un agente dei servizi segreti ed è addirittura proibito parlare con i migranti per strada. «Il tema immigrazione ha una forte connotazione politica in Italia come in Libia» spiega la fonte di Panorama. «Circolano teorie cospiratorie su piani che punterebbero a modificare la composizione etnica della Libia trasformandola in un campo profughi d’Europa». Il governo non vuole sentir parlare di hotspot, ma il ministro dell’interno di Tripoli, Mustafa Trabelsi, accusato dalle Ong di essere capo della milizia ed ex trafficante, sembra molto attivo nel contrasto all’immigrazione illegale. I libici hanno confermato la linea dura anche al generale Francesco Paolo Figliuolo durante la visita a Tripoli del 19 settembre scorso. Nel centro di detenzione di Abu Slim il comandante, generale Jamal Madhoun, tiene un mappamondo sulla scrivania. «Ghana, Mali, Burkina Faso» indica diversi Stati dell’Africa subsahariana. «Tutti hanno migranti in Libia grazie a una mafia internazionale con uomini nei Paesi di partenza, di transito e di destinazione come l’Italia».

Il ministero dell’Interno ci permette di incontrare velocemente solo una trentina di nigeriane, alcune con bambini neonati in braccio, che hanno accettato il rimpatrio dell’Onu. «Voglio tornare a casa ed essere libera. Qui in Libia…» teme di finire la frase una donna con il volto coperto che parla in inglese. Dal 2018 l’Organizzazione internazionale delle migrazioni ha riportato in 33 nazioni africane e asiatiche 30 mila migranti dalla Libia, che detiene il record di rimpatri con la Germania. Quest’anno sono tornati a casa da Tripoli e Bengasi, grazie ai voli organizzati dalla costola dell’Onu, in 8.200 con 70 dollari in tasca ciascuno e teoricamente dei progetti di reinserimento seguiti dalle Nazioni Unite.

Non tutti possono tornare ai luoghi di partenza. Osman è un nome di fantasia per proteggere l’incolumità di un cristiano perseguitato che è fuggito dal Sudan. «Sono un ex seminarista» dice. «A Khartoum mi hanno imprigionato e torturato, ma non ho mai imbracciato un fucile, solo la Bibbia». Osman fa parte di un gruppo di una ventina di cristiani in fuga. «Non vogliamo rischiare la vita su un barcone per arrivare a Lampedusa» aggiunge di nascosto. «La sede dell’Unhcr delle Nazioni Unite a Tripoli non ci aiuta perché siamo cristiani. I funzionari locali favoriscono i profughi musulmani».

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