L’appoggio di Vladimir Putin al regime siriano di Bashar al-Assad sta diventando economicamente insostenibile. In Russia, poi, cresce il malcontento per il costoso attivismo sul teatro internazionale. Così, mentre mette mano alla Costituzione per garantirsi un futuro in patria, il signore del Cremlino punta a sganciarsi da un alleato troppo scomodo.
Vladimir Putin sta riflettendo da tempo su quale sarà il suo lascito alla storia. In politica interna, è certo di poter varare la riforma costituzionale che garantirà stabilità alla Russia anche dopo la sua uscita di scena. Quanto alla politica estera, guarda con crescente preoccupazione alla Libia e alla Siria, perché il costo delle operazioni militari si è fatto ormai insostenibile per le casse dello Stato, e si rischia una vittoria a metà.
Secondo l’ultimo report dello Stockholm International Peace Research Institute, con 61,4 miliardi di dollari la spesa militare russa, nel 2018, è stata ridotta del 22 per cento rispetto al picco del 2016. Per la prima volta dal 2006 la Russia non figura nella classifica dei primi cinque Paesi per spesa militare. Il che indica una crescente difficoltà nel sostenere i conflitti in corso in Medio Oriente e Africa del Nord.
All’inizio dell’intervento militare in Siria, Putin aveva affermato che i costi della guerra sarebbero stati inferiori a 500 milioni di dollari. Ma già a metà ottobre 2016, un anno dopo l’inizio delle ostilità, erano lievitati a poco meno di 1,5 miliardi di dollari. Dunque, il Cremlino spendeva all’epoca qualcosa come quattro milioni di dollari al giorno per mantenere in piedi il regime alawita.
Come dice a Panorama Ely Karmon, professore dell’International Institute for Counter-Terrorism (ICT), «la Siria è strategica perché, dopo il crollo dell’Urss, è stato l’unico Paese ad aver consentito a Mosca di mantenere una base navale, a Tartous. Il contratto attuale ha una durata di 49 anni rinnovabili e prevede che l’intera provincia di Latakia possa essere usata dai russi come base militare navale e aerea. Un vantaggio strategico importantissimo per la Russia. Per cui non c’è dubbio che per ora voglia rimanere in Siria».
Dal 2017, però, l’investimento di Mosca si è ridotto notevolmente. Nei bilanci militari russi non è possibile trovare informazioni sui reali costi delle operazioni siriane. Tuttavia, si stima che si mantengano intorno ai 2,3 milioni di dollari al giorno: un esborso non più ragionevole nel 2020, considerata anche la recente apertura del fronte libico dove la Russia difende le forze guidate dal generale Khalifa Haftar. Il quale, tuttavia, non riesce ad avere la meglio sui tripolini e, proprio per questo, insiste a chiedere uomini e armi a Mosca. In caso di mancato accordo politico tra Bengasi e Tripoli, il Cremlino dovrebbe perciò pagare un prezzo non a lungo sopportabile.
Marco Di Liddo, analista del Centro studi internazionali di Roma, sottolinea in proposito: «Investire in uomini, capitali e risorse militari nel Mediterraneo è stato indispensabile non solo per salvare l’alleato siriano Assad, ma anche per imporre la Russia come mediatore internazionale, aumentandone il prestigio e il peso negoziale. In ultima analisi, la lotta al terrorismo islamico è servita al Cremlino per dimostrare al mondo di non essere una mera potenza regionale. Tuttavia questa esposizione ha un costo elevatissimo».
L’idea di Putin era usare la crisi siriana come investimento per differenziare i propri interessi a livello globale e, dopo la fine delle ostilità, raccogliere i dividendi grazie alla ricostruzione del Paese. Tuttavia, aggiunge Di Liddo, «appare evidente come si tratti di una strategia rischiosa e che corre sempre sul filo di lana».
Infatti, dopo oltre otto anni di guerra civile, la riconquista di Assad è solo parziale: il territorio attualmente controllato dal regine di Damasco si è ridotto del 30 per cento, con l’est dell’Eufrate in mano ai curdi e parte del nord-ovest in mano alla Turchia. Inoltre, l’esercito siriano non riesce a prevalere sugli ultimi ribelli, arroccati nella provincia di Idlib.
Se la Federazione Russa non attraversasse una fase di stagnazione economica e non subisse le sanzioni internazionali, la riconquista potrebbe avvenire in tempi rapidi. Ma l’azzardo libico, in aggiunta a quello siriano, rischia di costare troppo al Cremlino. Anche perché in patria Putin deve registrare un crescente malumore tra la popolazione, che accusa direttamente il presidente di occuparsi più degli affari esteri che non del bene dei cittadini russi. Forse, anche per questo motivo, aver fatto cadere improvvisamente l’esecutivo nei giorni scorsi trova un senso. Una mossa che serve allo «zar» per ritrovare un largo consenso e assicurarsi un ruolo centrale anche dopo il 2024 (quando scadrà il suo mandato) passando per una redistribuzione del potere.
C’è tuttavia da tener presente almeno un altro fattore interno, che potrebbe complicare i piani del presidente russo: riguarda quei 20 milioni di cittadini musulmani che hanno in odio il «sanguinario Assad», reo di aver massacrato i loro compagni sunniti, e che per tale ragione rappresentano una seria minaccia alla pace sociale.
«Quando la Russia entrò in guerra in Siria nel settembre 2015» riflette Mariya Y. Omelicheva della Kansas University, «l’Isis dichiarò immediatamente la Jihad contro Mosca e invitò i musulmani russi a compiere attentati come ritorsione. In ottobre, infatti, un aereo russo esplose in volo sopra l’Egitto uccidendo oltre 200 civili, in maggioranza russi. L’Isis ne rivendicò la responsabilità e, a partire dal 2016, sferrò quindi molteplici attacchi, sia pur minori, nel Caucaso settentrionale e in altre regioni della Russia».
C’è poi la delicata questione iraniana, di cui sono note le mire sulla Siria. Poco prima che venisse ucciso da un drone americano, a Damasco circolava voce che il generale Qassem Soleimani si sarebbe candidato alle elezioni presidenziali siriane del 2021. E c’è persino chi maligna che ad aver tradito Soleimani – era appena arrivato a Baghdad con un volo dalla Siria, quando la sua auto è stata centrata da un missile – siano stati proprio gli uomini del presidente Assad, temendo una destituzione attraverso il voto.
Vladimir Putin sa fin troppo bene che la «santa alleanza sciita» è solo un’operazione di facciata, e che a Damasco Assad resterà in sella fino al 2028 solo se la Russia gli garantirà il proprio sostegno. Così come sa che un regime change, un rivolgimento del potere in Iran è divenuto all’improvviso possibile. Difatti, la crisi con gli americani e l’acuirsi delle proteste di piazza hanno aperto la strada a una delegittimazione del governo degli Ayatollah, che dominano fin dal 1979.
Per il presidente, dunque, l’espansionismo russo in Medio Oriente potrebbe consolidarsi o svanire nel giro di pochi anni. Lui, che resterà in carica fino al 2024, è già entrato nei libri di storia. Il capitolo finale, però, è ancora tutto da scrivere.
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