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Pakistan: nell’inferno dove vivono (e muoiono) i cristiani

Nella Repubblica islamica e potenza nucleare gli episodi di persecuzione religiosa si ripetono. E, nonostante gliaattentati che insanguinano il Paese, molti terroristi ci vivono indisturbati. Il proselitismo e le radicalizzazioni? Tra sospetti e piste sarebbe coinvolta anche l’Italia.

• LO STATO ATTUALE DEI RAPPORTI INDIA PAKISTAN
• IL PAKISTAN E IL TERRORISMO INTERNAZIONALE


L’ultima vittima dell’odio religioso contro i cristiani in Pakistan è Nadeem Joseph, morto lo scorso 29 giugno dopo cinque interventi chirurgici a seguito di un’aggressione. Motivo? La presenza di una famiglia cristiana nel quartiere musulmano di Swati Phatak di Peshawar era ritenuta inaccettabile dagli abitanti.

Dopo che gli avevano bruciato le porte di casa, Nadeem aveva ricevuto un ultimatum: 24 ore di tempo per lasciare il quartiere. Detto fatto, la sera del 4 giugno un uomo chiamato Salman Khan si è presentato a casa della famiglia insieme ai figli e ha aperto il fuoco. Nadeem ha avuto la peggio mentre i suoi familiari sono rimasti feriti in maniera non grave. L’assassino è tuttora latitante.

Quanto accaduto a Peshawar non è che l’ennesimo atto criminale contro i cristiani nella Repubblica islamica del Pakistan. Con i suoi 220 milioni di abitanti – dei quali circa il 97 per cento di religione musulmana (75 per cento sunniti e 25 per cento sciiti ma il dato è da sempre controverso) – è il sesto Paese più popolato al mondo e, secondo il rapporto 2020 di World watch research, tra i più pericolosi per i non musulmani: «I sacerdoti cristiani possono essere arrestati quando non rispettano la volontà delle autorità. Questo funge da monito per la minoranza cristiana e la intimidisce ulteriormente. Sono, infatti, considerati cittadini di seconda classe e discriminati in ogni aspetto della vita».

Scorrendo la Costituzione pachistana, infatti, si scopre che ogni cittadino ha sì diritto alla libertà di parola, ma è comunque soggetto alle restrizioni necessarie «nell’interesse della gloria dell’Islam». Questa gloria si traduce nel quinto posto che il Pakistan occupa nella poco onorevole classifica dei Paesi che perseguitano i cristiani, preceduto solo da: Corea del Nord, Afghanistan, Somalia e Libia.

Per i cristiani le cose hanno iniziato a mettersi male già nel 1947, anno dell’indipendenza pachistana dal Regno Unito. Da quel momento, la stretta sulla minoranza cristiana si è fatta sempre più pesante. Le chiese, per esempio, sono state regolarmente prese di mira da attentati dinamitardi, l’ultimo dei quali nel dicembre 2017 a Quetta, nella Bethel Memorial Methodist Church, dove un uomo si è fatto esplodere (bilancio di 11 morti e decine di feriti). Rivendicato dall’Isis, l’attacco era stato pensato per uccidere i 200 fedeli che si erano ritrovati per la cerimonia domenicale.

Paradossali sono, in tal senso, le numerose cause giudiziarie intentate dallo Stato contro i sacerdoti che, per mancanza di mezzi finanziari, non sono riusciti a mettere in atto misure di sicurezza: il pastore della Chiesa della Gloria, Kashif Aziz di Bahawalpur, per esempio, è stato arrestato il 19 febbraio 2017 per tali inadempienze e, al fine di evitare la condanna a sei mesi di reclusione, ha dovuto sborsare 500 dollari.

Ma la questione è più ampia e attiene a una sorta di «discriminazione istituzionalizzata» contro la cristianità, che spazia dal mondo del lavoro – dove ai cristiani sono riservate solo mansioni di basso livello – alle leggi sul rispetto del Corano. Illuminante a tal proposito è la vicenda di Asia Bibi: contadina cattolica e madre di cinque figli, è stata arrestata per blasfemia nel 2009 e condannata a morte. Dopo aver trascorso dieci anni nel braccio della morte, la Corte Suprema le ha accordato il diritto di lasciare il Paese, grazie soltanto alle forti pressioni internazionali che hanno incrociato i buoni uffici della Santa sede, dello stesso Francesco e di organizzazioni come Amnesty international. Asia non è la sola: a oggi, le persone accusate di aver profanato il Corano od offeso il profeta Maometto sono oltre 200, tutti cristiani vittime di malelingue. Infatti, per finire sotto processo per blasfemia in Pakistan è sufficiente che una persona renda testimonianza alla polizia, senza l’onere della prova. Neanche a dirlo, i cristiani sono le principali vittime di questo sistema delatorio.

A difendere le comunità cristiane da questo accanimento è stato, fino al 2011, il politico Clement Shahbaz Bhatti: esponente del Christian liberation front, era salito al governo nel 2008 come ministro per le minoranze. Appena assunto il ruolo, era l’unico cattolico al governo, neanche a dirlo, ha iniziato a ricevere minacce di morte, specialmente dopo aver contribuito alla difesa dei diritti di Asia Bibi (motivo per cui è stato costretto alle dimissioni dopo poco). Pur avendo fatto richiesta di una scorta, non gli è mai stata concessa e così, il 2 marzo 2011, è rimasto vittima di un commando talebano, che lo ha crivellato di colpi lasciandolo a terra morto. Due mesi prima, stessa sorte era toccata al liberale Salmaan Taseer, ucciso dalla sua stessa guardia del corpo per essersi opposto alla legge sulla blasfemia e per aver difeso gli «infedeli».

Lo stesso primo ministro Imran Khan, leader del partito Pakistan Tehreek-e-Insaf, ha rischiato grosso. Nato nel 1952 da una famiglia agiata di etnia pashtun, non è mai stato un fervente musulmano: già leggenda nazionale della nazionale pachistana di cricket, ex playboy (tre mogli e un numero di imprecisato di figli), era un grande consumatore di alcol e, secondo le accusa di una delle sue ex mogli, anche di cocaina e di giovani uomini. Tutte pratiche aborrite dall’Islam, per alcune delle quali vige la pena di morte. Fortunatamente per lui, ha sposato in terze notte Bushra Bibi Khan (che in Pakistan viene considerata come una donna in possesso di poteri soprannaturali) e si è rifatto l’immagine di un pio musulmano, al quale si può perdonare anche un passato licenzioso.

Del resto, questo è un Paese di chiaroscuri, intrighi internazionali e doppie verità. Basti pensare al ruolo che Islamabad ricopre a livello internazionale: alleato strategico degli Stati Uniti in Asia centrale, è al tempo stesso lo Stato che ha nascosto e protetto Osama Bin Laden, e che oggi favorisce i talebani afghani e i loro alleati, compreso il gruppo armato della rete Haqqani, protagonisti del narcoterrorismo e della guerriglia contro l’Occidente nelle «terre dell’Islam».

In Pakistan, inoltre, vivono indisturbati molti terroristi globali: attualmente nella lista figura anche Sajid Mir, la mente delle stragi di Mumbai del novembre 2018, che fecero 200 morti e oltre 300 feriti. Sia l’India che gli Stati Uniti ne hanno chiesto l’estradizione, senza ottenere alcuna risposta. Per capirne le ragioni, bisogna guardare alla complessa macchina dei servizi segreti nazionali: ovvero l’Isi, acronimo di Inter services intelligence, che sin dalla sua fondazione si è contraddistinto per condotte politiche spregiudicate e ben al di là delle leggi, spaziando dagli omicidi politici (di cui è stata vittima la stessa premier Benazir Bhutto nel 2007) a traffici di ogni tipo: droga, armi e componenti nucleari, di cui il Pakistan è in possesso (oggi si stima che Islamabad abbia tra le 110 e le 130 testate nucleari).

Senza dimenticare lo stato delle relazioni con l’India, altra potenza nucleare con cui il governo pachistano scambia continui colpi d’artiglieria in relazione al possesso del Kashmir, la regione contesa dove solo nei primi mesi del 2020 ci sono state circa 500 violazioni del cessate il fuoco. Secondo il ricercatore di Nuova Delhi Saurav Sarkar, «nel prossimo futuro le relazioni deraglieranno ulteriormente e potrebbero essere del tutto irreparabili».

E c’è da credergli, considerato che il Pakistan si è gettato tra le braccia del più grande nemico dell’India, la Cina. Con la quale Islamabad già dal 2015 ha siglato un accordo monstre per lo sviluppo di infrastrutture e trasporti. Si chiama China-Pakistan economic corridor. Valore: 62 miliardi di dollari. Di questi, circa 50 sono destinati al porto di Gwadar, proprio in quel Mar Arabico dove il gigante asiatico tenta di frenare le ambizioni cinesi. Lo scalo è un punto fermo dell’iniziativa di Pechino «One Belt, One Road», ossia la Nuova Via della seta.

Ma per Faran Jeffery dell’Islamic theology of counter terrorism londinese, anche le relazioni con l’Italia sono problematiche: «C’è una vasta comunità pachistana in Italia e i casi di radicalizzazione da voi non sono rari. È dimostrato che la stessa strage di Mumbai sia stata finanziata anche con denaro arrivato dal Nord Italia. Non entrerò nello specifico, ma posso dire che la radicalizzazione tra alcuni segmenti della diaspora pachistana in Italia è ancora troppo presente».


LO STATO ATTUALE DEI RAPPORTI INDIA-PAKISTAN

Pakistan: nell’inferno dove vivono (e muoiono) i cristiani
LO STATO ATTUALE DEI RAPPORTI INDIA-PAKISTAN

di Saurav Sarkar
Ricercatore presso il Centre for Air Power Studies di Nuova Delhi e dello Stimson Center di Washington (Usa)

L’attuale stato delle relazioni tra India e Pakistan sotto i rispettivi governi non è promettente, vista la storia degli ultimi 5-6 anni. Le relazioni sono state rovinate da numerosi e gravi attacchi terroristici in India e dalle successive ritorsioni dell’India (dopo gli attacchi di Uri & Pulwama) e dalle contro-retorsioni del Pakistan (come si è visto dopo la crisi di Balakot) negli ultimi anni. Se nel prossimo futuro si verificherà un grave attacco terroristico in India che possa essere ricondotto al Pakistan, le relazioni deraglieranno ulteriormente e potrebbero essere del tutto irreparabili. Attualmente, entrambe le parti si scambiano retorica e propaganda ostile sul Kashmir con frequenti ostilità armate lungo la linea di controllo (LoC). In questo momento la situazione è sempre più complicata con le attività militari della Cina lungo il fronte orientale del Kashmir ed entrambi i paesi stanno calcolando attentamente le loro mosse. Entrambi i Paesi hanno anche ridotto la loro presenza diplomatica e i contatti per diversi fattori che vanno dalla politica alle accuse di spionaggio. Non mi pare vi siano le condizioni per essere ottimisti nel prossimo futuro, a meno che non ci sia un cambiamento importante da entrambe le parti in termini di impegno.

IL PAKISTAN E IL TERRORISMO INTERNZIONALE

Pakistan: nell’inferno dove vivono (e muoiono) i cristiani
IL PAKISTAN E IL TERRORISMO INTERNZIONALE

Panorama ha chiesto a Faran Jeffery (foto), ricercatore dell’Islamic Theology of Counter Terrorism (ITCT) londinese, quali siano i rapporti tra Pakistan e terrorismo nel loro paese e nel mondo (Italia inclusa). Quello che ne emerge? Uno scenario preoccupante.


Gli Stati Uniti hanno a lungo accusato il Pakistan di sostenere tacitamente i talebani afghani e i loro alleati compreso il gruppo armato della rete Haqqani (HQN), nella loro lotta contro le forze NATO guidate dagli Stati Uniti nel vicino Afghanistan. Recentemente lo hanno ancora ribadito nel loro ultimo rapporto annuale sul terrorismo del Dipartimento di Stato USA per il 2019. Il governo pakistano, d’altra parte, ha dichiarato di essere “deluso” dal rapporto, che considera “contraddittorio e selettivo”.

È vero che il governo pakistano e le sue istituzioni di sicurezza non hanno gradito il recente Rapporto annuale sul terrorismo del Dipartimento di Stato americano del 2019. In una dichiarazione, il Ministero degli Esteri pakistano ha detto che il Rapporto sul terrorismo del Dipartimento di Stato americano del 2019 ha ignorato il suo “ruolo cruciale” nel degradare Al Qaeda nella regione e “diminuire la minaccia che il gruppo terroristico una volta rappresentava per il mondo”. Allo stesso modo, il Rapporto riconosce la forte diminuzione dell’incidenza degli attacchi terroristici in Pakistan. Tuttavia, il rapporto USA trascura di spiegare che ciò è stato possibile solo perché le risolute operazioni antiterrorismo del Pakistan hanno preso di mira gruppi e gruppi proibiti senza discriminazioni. Il Pakistan ha anche respinto le accuse secondo cui Islamabad avrebbe fornito un rifugio sicuro a “qualsiasi gruppo o entità per usare il suo territorio contro qualsiasi paese”. Io ritengo che al contrario, è il Pakistan che affronta la minaccia del terrorismo da parte di gruppi con base esterna e sponsorizzati da paesi stranieri, come il TTP [Tehrik-e-Taliban Pakistan], l’ISIS-K [Daesh/Islamic State-Khorasan Province] e altri.

E i gruppi terroristici che operano in Pakistan? Chi sono e come vengono finanziati?

Secondo la lista stilata dal “National Counter Terrorism Authority” attualmente, sono 76 le organizzazioni vietate, 4 sono sotto sorveglianza del Ministero degli Interni pakistano e altre 2 sono bandite ai sensi della risoluzione n. 1267 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. È importante notare che alcune delle 76 organizzazioni vietate non hanno sede in Pakistan. Ad esempio, la centrale dei Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP) ha sede in Afghanistan, da dove gestisce le sue operazioni. Allo stesso modo, non tutte le organizzazioni della lista sono di natura jihadista. In realtà, c’è un gran numero di organizzazioni in quella lista che sono di natura separatista o etno-nazionalista. Gruppi diversi hanno diversi mezzi di finanziamento. Così, ad esempio, se si parla di un gruppo come Tehrik-e-Taliban Pakistan (TTP), all’epoca in cui aveva organizzato la sua presenza in Pakistan, ha impiegato vari mezzi per finanziarsi. Raccoglieva il denaro delle estorsioni da uomini d’affari locali, anche in grandi città come Karachi. Chi non pagava spesso veniva rapito o ucciso.

Si occupava anche di crimini, tra cui rapine in banca, rapimenti a scopo di estorsione, ecc. Poi altre organizzazioni come la Jamaat-ud-Dawaa, anch’essa proibita come organizzazione terroristica in Pakistan, utilizzano principalmente le donazioni della gente del posto per il loro finanziamento. Le organizzazioni che si impegnano apertamente nella retorica anti-indiana, anti-americana e anti-israeliana trovano abbastanza facile raccogliere fondi attraverso le donazioni della gente del posto in Pakistan. A questo punto si tratta di una tattica collaudata e collaudata.

Secondo il rapporto USA, il Pakistan continua ad essere un porto sicuro per alcuni gruppi terroristici e per i loro rappresentanti regionali. Le chiedo: cosa sta realmente facendo il Pakistan contro il terrorismo?

Ad essere onesti, il Pakistan ha preso alcune misure contro i terroristi che preoccupano anche la comunità internazionale. Ad esempio, il governo pakistano ha perseguito casi di finanziamento del terrorismo contro persone legate alla Jamaat-ud-Dawaa. Il 9 giugno 2020 un tribunale antiterrorismo in Pakistan ha incriminato quattro alti dirigenti della Jamaat-ud-Dawaa (JuD) messa al bando in un caso di finanziamento del terrorismo. I quattro sono stretti collaboratori del leader dell’attacco terroristico di Mumbai del 2008, Hafiz Saeed. Il tribunale ha incriminato Hafiz Abdul Rehman Makki, Malik Zafar Iqbal, Yayha Aziz e Abdul Salam in uno dei casi registrati contro di loro con l’accusa di finanziamento del terrorismo. Analogamente, nel febbraio 2020, un tribunale antiterrorismo pakistano ha condannato Hafiz Saeed, il fondatore, a cinque anni e mezzo di prigione in un caso legato al finanziamento del terrorismo. Saeed è stato condannato e condannato per due capi d’accusa da un tribunale della città orientale di Lahore. È stato condannato a sei mesi di reclusione per essere stato membro di una “organizzazione proibita” secondo la legge pakistana, e altri cinque anni per un’accusa relativa alla “proprietà illegale”. Anche il socio di Saeed, Zafar Iqbal, è stato condannato e condannato alla stessa pena. L’arresto e l’accusa di Saeed, la presunta mente degli attacchi di Mumbai del 2008 che hanno ucciso più di 160 persone, è stata una richiesta di lunga data degli Stati Uniti e della vicina India. Quindi, se da un lato il Pakistan ha indubbiamente compiuto diversi passi seri contro i gruppi terroristici che operano dal suolo pakistano, dall’altro c’è ovviamente la convinzione della comunità internazionale che deve fare di più. Molti sostengono che alcune di queste misure sono di facciata e che il Pakistan può sicuramente scendere più duramente contro tali gruppi. Il Pakistan, da parte sua, sostiene che i suoi sforzi non vengono riconosciuti e che i suoi sacrifici nella guerra al terrorismo vengono ignorati. Personalmente penso che se da un lato gli sforzi del Pakistan devono essere lodati e riconosciuti, dall’altro bisogna anche dirgli educatamente di prendere misure più forti contro questi gruppi. Ma una posizione più forte o più dura da parte degli Stati Uniti e della comunità internazionale potrebbe in realtà essere controproducente.

Da qualche tempo si parla del Pakistan come di un Paese che potrebbe implodere a causa di tensioni interne ed esterne (ad esempio lo scontro con l’India). Lei è d’accordo?

Non sono d’accordo con questa valutazione. Come ricorderete, c’è stato un rapporto della CIA nel 2005 che diceva che il Pakistan sarebbe stato uno Stato fallito entro il 2015. Ma è successo il contrario e il Pakistan è tornato molto più forte nel 2015 dopo che nel 2014 ha lanciato con successo l’operazione Zarb-e-Azb contro la presenza organizzata di gruppi terroristici nella regione della cintura tribale. Quindi penso che mentre quella valutazione della CIA avrebbe avuto senso per molte persone nell’era dal 2005 al 2012, dobbiamo dare atto allo Stato pakistano e alle sue istituzioni di sicurezza per la loro resilienza e per il loro ritorno, che in pochi si aspettavano. Per quanto riguarda l’India, beh, le tensioni indo-pakistane sono lì, ovviamente, e sono aumentate in modo significativo dal 2019, quando l’aviazione indiana ha fatto un’incursione in Pakistan. Ma come ci hanno dimostrato gli eventi successivi – come l’abbattimento di un jet indiano da parte dell’aviazione pakistana e la cattura del comandante dell’dell’aviazione indiana Abhinandan Varthaman il 27 febbraio – il Pakistan è molto capace di affrontare la minaccia militare rappresentata dall’India. Dobbiamo anche tenere a mente che, poiché entrambi i Paesi hanno la capacità di attacco nucleare, non vedremo un conflitto militare in piena regola a breve. Questo è stato dimostrato anche quando l’Aeronautica Militare indiana ha dichiarato, dopo l’incursione del 2019, di non voler intraprendere ulteriori azioni, per far capire al Pakistan e alla comunità internazionale che l’India non è alla ricerca di un vero e proprio conflitto militare. Quindi, anche se il Pakistan ha alcune linee di faglia interne e una democrazia nascente, non credo che vedremo il Paese implodere in futuro.

Ogni volta che succede qualcosa in Pakistan, i servizi segreti pakistani (ISI) si presentano sotto una luce sinistra e lo stesso vale per l’esercito. Alcuni dicono che in realtà sono due stati all’interno dello Stato. Che ne pensa?

Il potere dei militari pakistani e dell’ISI è molto significativo in Pakistan, non c’è dubbio su questo. La grande maggioranza del pubblico pakistano ammira l’esercito pakistano e l’ISI gode del sostegno popolare in Pakistan. Inoltre, non aiuta il fatto che le istituzioni civili pakistane, compresi i partiti politici, siano ancora molto deboli e con altissimi livelli di corruzione. Spesso i militari sono invitati dalle istituzioni civili a svolgere un ruolo più ampio per esempio, molto spesso ogni volta che c’è una grande alluvione o un terremoto o un disastro come il recente incidente aereo della PIA nella città di Karachi. Allo stesso modo, a causa delle minacce alla sicurezza che il Pakistan deve affrontare, in regioni come il Balochistan e la cintura tribale lungo il confine con l’Afghanistan, c’è un ruolo maggiore dei militari e dell’ISI. Penso che la colpa dell’esercito e dell’ISI dopo ogni piccola e grande cosa che accade in Pakistan sia fuori luogo. Dobbiamo essere razionali e analizzare tali incidenti caso per caso. Certo, entrambi hanno un ruolo significativo in molte aree, dalle questioni relative alla sicurezza alla politica estera del Pakistan quando si tratta di Stati Uniti, India e Afghanistan, ma sarebbe ingiusto e impreciso incolparli per tutto ciò che va male. Molte volte è semplicemente l’incompetenza e/o il fallimento delle istituzioni civili pakistane.

C’è una grande comunità pakistana in Italia e i casi di radicalizzazione non sono stati rari. In passato è stato dimostrato che la strage di Mumbai è stata finanziata anche con denaro proveniente dal Nord Italia. Può confermare che questo flusso di denaro proveniente dall’Italia esiste ancora?

L’Italia ha un significativo problema jihadista e non si limita solo alla diaspora pakistana. Nel 2009 la polizia italiana ha effettuato due arresti di pakistani che si pensava avessero utilizzato un servizio di trasferimento di denaro per aiutare le persone in contatto con gli autori degli attentati di Mumbai del 2008. Per questo tipo di finanziamento del terrorismo, il sistema Hawala è spesso utilizzato dagli autori. Anche se non entrerò nello specifico, posso dire che la radicalizzazione tra alcuni segmenti della diaspora pakistana in Italia è ancora presente e quindi potrebbe essere un finanziamento del terrorismo, anche per gruppi come lo Stato islamico e al-Qaeda. Nel 2015, ad esempio, l’Italia ha arrestato 9 persone in relazione a un complotto di al-Qaeda per lanciare attacchi in Pakistan e in Vaticano. Quindi questo finanziamento del terrorismo non si limita solo a gruppi che sono percepiti come amichevoli nei confronti dello Stato pakistano, ma comprende anche gruppi che lancerebbero volentieri attacchi in Pakistan. Penso che la cosa fondamentale da mettere a fuoco per l’Italia sia trovare il modo di contrastare l’estremismo nella comunità della diaspora e trovare modi efficaci per fermare il finanziamento del terrorismo dal suolo italiano.

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