Nel Paese centroamericano la curva dei decessi per Covid-19 è simile a quella del Brasile. Un bilancio di 30.000 vittime ufficiali, con stime che parlano di un numero tre volte più alto. Lo Stato? Scende più che mai a patti con i cartelli della droga, che controllano anche gli aiuti alla popolazione.
«Fino a tre anni di carcere se contagiano altre persone col coronavirus per disattenzione». Basterebbe il titolo di Milenio, quotidiano messicano del 30 giugno scorso, per capire che nel Paese centroamericano l’epidemia di Covid-19 è fuori controllo e le libertà fondamentali a rischio. Questo virus è quanto di più contagioso ci sia e, dunque, se fosse sufficiente «fare attenzione» per non trasmetterlo, il problema sarebbe risolto da tempo.
Invece nello Stato settentrionale di Nuevo León, dove maggiore è la diffusione, da fine giugno chi lo trasmette rischia la galera. In Italia, però, nessuno sembra essersene accorto, forse perché al centro dell’attenzione c’è il Brasile di Jair Bolsonaro che, come scritto da Radio Maria sul suo sito, è «un presidente di destra e contrario al lockdown».
In Messico invece il presidente è di sinistra, è buon amico del dittatore venezuelano Nicolás Maduro e si chiama Andrés Manuel López Obrador, AMLO per tutti. E allora poco importa se la curva pandemica del Paese da metà giugno è molto più ripida e preoccupante di quella brasiliana, invece in calo. Certo, «solo» 30.000 morti in Messico, la metà dei 60.000 brasiliani, ma ciò che conta in questa epidemia sono i decessi per milione d’abitanti e avendo il Messico quasi la metà della popolazione rispetto al Brasile, la mortalità è simile. Non solo: i morti potrebbero essere almeno il triplo, concentrati soprattutto a Città del Messico, sfiorando la barriera psicologica dei 100 mila decessi. «Il governo di AMLO sta nascondendo migliaia di morti per coronavirus» scriveva già a inizio maggio il New York Times che, di certo, non è da annoverare tra i media di destra.
Ma del Messico è moralmente doveroso scrivere soprattutto perché la mafia dei narcos grazie alla pandemia si sta arricchendo a dismisura, oltre ad avere attaccato «il cuore dello Stato» a causa di una guerra feroce tra il cartello di Sinaloa (quello su cui ha imperato il celebre signore dei narcos El Chapo) e il cartello Jalisco Nueva Generación (CJNG). Così, mentre AMLO nelle sue soporifere conferenze stampa giornaliere sottolinea i suoi tre obiettivi principali – l’economia da fare ripartire, la stampa che non gli è amica da screditare e la corruzione dei suoi predecessori – i trafficanti più feroci del mondo fanno affari d’oro con il Covid-19, assumendo un ruolo sociale più legittimato dall’approvazione popolare.
Basti pensare ad Alejandrina Guzmán, figlia ed erede appunto del Chapo, che da mesi sta consegnando migliaia di casse di cibo – lei le ha ribattezzate «chapodespensas» – agli anziani di Guadalajara, la capitale dello Stato di Jalisco. Ecco che, in virtù del contagio, migliaia di vecchietti adesso la considerano «una figlia». Per rendersene conto basta andare sulla pagina Facebook che lei usa per promuovere il marchio di abbigliamento «El Chapo701». Qui Alejandrina documenta come lei in persona stia portando casse di cibo con sopra stampata la faccia del «babbo boss» a tutti quelli che glielo chiedono.
Salita alla ribalta della cronaca solo nel 2012, quando era stata arrestata negli Usa con un passaporto falso, oggi la Chapo jr è una «star del settore umanitario» e ha creato persino una fondazione per distribuire aiuti. Soprattutto, è molto vicina a suo fratello Ovidio Guzmán, con cui AMLO ha ammesso di essersi accordato per far cessare l’assedio del Cartello di Sinaloa alla città di Culiacán, l’ottobre scorso. Non stupisce, visto che López Obrador a inizio pandemia ha anche stretto la mano della mamma del Chapo, facendo imbestialire i narcos del rivale CJNG. Non a caso Nemesio Oseguera Cervantes, alias «El Mencho», che del cartello Jalisco Nueva Generación è il leader indiscusso (con una taglia di 10 milioni di dollari sulla testa) ha reagito sferrando un attacco senza precedenti.
Dopo la cattura e l’immediata liberazione per ordine presidenziale di Ovidio Guzmán, figlio del Chapo ricercato dagli Stati Uniti, lo scorso ottobre, «El Mencho» era furente per la presunta alleanza tra AMLO e, appunto, il cartello di Sinaloa. Per questo a maggio di quest’anno, in piena epidemia, il boss di Jalisco ha appunto iniziato una «controffensiva» ai massimi livelli, che ricorda lo stragismo di Cosa nostra nel 1992, quello degli attentati di Capaci e di Via D’Amelio a Palermo.
Una dichiarazione di guerra, come dimostrano i recenti omicidi di Marcos Alberto Corona Baltazar, direttore del supercarcere di Puente Grande, nello Stato di Jalisco, poi del giudice antimafia dello Stato di Colima, Uriel Villegas, freddato con la moglie e, lo scorso 26 giugno, l’imboscata all’alba contro Omar García Harfuch, il capo della polizia di Città del Messico, colpevole di avere inferto duri colpi ai narcos negli ultimi 20 anni.
Il punto di svolta dell’arricchimento per i criminali messicani – che ha consentito loro di smarcarsi dalla dipendenza da quelli colombiani, ma che ha anche scatenato la guerra tra la famiglia del Chapo e il CJNG – è arrivato con il fentanil, l’oppioide sintetico con cui hanno invaso prima gli Stati Uniti e poi l’Occidente tutto. Fentanil portato anni fa per primo a Manzanillo, nello Stato di Colima, dalla mafia cinese di Wuhan, in Cina.
Questo spiega la grande quantità di risorse impiegate per eliminare personaggi come il direttore del massimo supercarcere, del Giovanni Falcone messicano e, per ultimo, del capo di polizia più protetto del Messico, sopravvissuto miracolosamente a una tempesta di 150 proiettili esplosi da quattro commando, a fine giugno.
Prima di entrare in sala operatoria, García Harfuch ha detto con un filo di voce che l’attentato terroristico contro di lui era stato organizzato dal cartello di Jalisco. «O perché quel gruppo lo aveva già minacciato direttamente ma non era stato reso pubblico, oppure perché di fatto la capitale è già sotto il controllo del cartello del Mencho» spiegano alcuni inquirenti.
Di certo Harfuch, che si sta riprendendo dall’attentato in ospedale, è l’uomo delle istituzioni che dispone della maggiore capacità di reazione, forte di 80.000 uomini. «E attaccare il detentore della sicurezza di Città del Messico significa attaccare Roma», ovvero la capitale dell’Impero, chiosa sempre Milenio.
Intanto AMLO non risponde né su questo né sui «narcos parastatali»: cioè sulla corruzione del suo esecutivo che, secondo molte denunce, con il business delle commesse sanitarie starebbe lucrando miliardi di dollari grazie al Covid-19. Da segnalare infine il tentativo di Alejandro Gertz Manero, Procuratore generale scelto dallo stesso presidente, di riscrivere la «verità storica» sull’eccidio dei 43 studenti di Ayotzinapa che nel 2014 commosse il mondo.
Se si prendesse per buona questa nuova narrativa di Gerts Manero che accusa chi ha condotto le indagini, spiega il giornalista Carlos Marín Martínez, «gli universitari desaparecidos non sarebbero stati portati via a forza dalla polizia locale che poi li ha consegnati al cartello di Guerreros Unidos. Né questi feroci narcos feroci li avrebbero uccisi, bruciando poi i corpi in una discarica». Una ricostruzione assurda, insomma, che fa a pugni anche con le prove del Dna che, proprio in una discarica, hanno consentito di individuare i resti di uno dei giovani. Ecco allora che la pandemia di coronavirus è solo un’altra tragedia che si somma alle molte di un Messico martoriato. Se anche pochi ne parlano, non basta ignorarle per esorcizzarle. n
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