Dai quasi cinquecento di maggio ai circa 220 di questi giorni. Le cifre «aggiornate» sui detenuti ad alto rischio rimessi in libertà a causa del Covid danno l’idea di una contabilità che il ministero della Giustizia guidato da Alfonso Bonafede non riesce a controllare. Intanto 112 reclusi, tra cui il boss dei Casalesi Pasquale Zagaria, non sono ancora rientrati in carcere.
Bin Laden non è mai tornato in cella. Ma non è il solo: come lui, restano impunemente a casa altri 111 detenuti mafiosi e pericolosi che nella scorsa primavera erano stati clamorosamente scarcerati per l’emergenza coronavirus. Lo scandalo delle scarcerazioni, che si era assopito, torna a esplodere. Tre mesi fa lo scandalo era stato così grave da portare a una richiesta di sfiducia contro il guardasigilli grillino, Alfonso Bonafede, e quasi a una crisi di governo. Tutto era cominciato proprio con Pasquale Zagaria, 60 anni ben portati e quel nome di battaglia, «Bin Laden», che gioca ironicamente sulla sua concretissima caratura criminale.
Fratello minore di Michele, il feroce boss del clan dei Casalesi, Pasquale Zagaria è stato condannato in via definitiva a 21 anni e sette mesi di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. È in prigione dal giugno 2007, e solo grazie a qualche sconto di pena avrebbe dovuto restarci fino al luglio 2025, in regime duro di «41 bis». La giustizia, del resto, l’ha individuato quale «mente finanziaria» del clan, il tecnico che ha permesso ai camorristi di Casal di Principe d’infiltrarsi in una serie di appalti pubblici miliardari.
Fino allo scorso aprile, Bin Laden si trovava nella prigione di Sassari, e in un ospedale di quella città veniva curato per un cancro alla prostata di cui era stato operato pochi mesi prima. Il problema è che in marzo era scoppiata l’emergenza Covid-19 e anche a Sassari il reparto di oncologia era stato interamente destinato al contrasto della pandemia. A quel punto, Zagaria aveva presentato un’istanza di scarcerazione per motivi sanitari. E a sorpresa il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il braccio operativo del ministero della Giustizia che si occupa delle carceri, non era stato capace d’individuare un’altra sede sicura dove trasferire il detenuto. Il Tribunale di Sassari aveva più volte sollecitato il ministero: per evitare la scarcerazione sarebbe bastato individuare la prigione di un’altra città, dotata di un ospedale con una sezione di alta sicurezza. Ma il Dap non c’era riuscito. Prima aveva perso tempo. Poi aveva addirittura spedito qualche email a un indirizzo sbagliato. Insomma, un disastro.
La scarcerazione di Zagaria, il 23 aprile scorso, era stata un colpo per l’opinione pubblica e di fatto aveva provocato lo scandalo, anche perché arrivata al culmine di una lunga serie di celle aperte. In aprile erano usciti altri due importanti capi di Cosa nostra: Francesco Bonura, 78 anni e tra i fedelissimi di Bernardo Provenzano, e Vincenzo Di Piazza, 80 anni. Pure la ‘ndrangheta calabrese aveva avuto il suo boss tornato a casa in Vincenzino Iannazzo, 66 anni.
Ai primi di maggio era emersa anche una prima lista dello scandalo: per la paura del contagio, tra esponenti di mafia e reclusi pericolosi, si era scoperto che erano stati scarcerati in 376. Quattro erano proprio i boss mafiosi di cui si erano occupate le cronache, tre dei quali usciti dai reparti del 41 bis, il carcere duro; altri 372 detenuti dai reparti di «Alta sicurezza 3», destinati ai condannati per delitti di mafia o per reati gravi. La lista non comprendeva però i reclusi che avevano lasciato le celle di «Alta Sicurezza 2», riservate ai terroristi di ogni ordine e grado.
Due settimane dopo, il 14 maggio, al culmine dello scandalo, il ministro Bonafede aveva rivelato al Parlamento che le uscite dei detenuti particolarmente pericolosi erano state molte di più, e cioè 498. Bonafede, che era stato da poco salvato dalla sfiducia grazie a un risicato voto in Senato, ma era stato costretto alla defenestrazione del capo del Dap, Francesco Basentini, e alla sua sostituzione con il magistrato antimafia siciliano Bernardo Petralia, aveva anche garantito al Parlamento che un decreto legge appena varato, il numero 29 del 10 maggio, avrebbe risolto tutto. «Le scarcerazioni motivate da esigenze sanitarie» aveva assicurato il ministro «saranno rivalutate ogni 15 giorni dai Tribunali di sorveglianza, che dovranno verificare se permangano le condizioni che hanno giustificato l’uscita dagli istituti detentivi».
Oggi, quattro mesi dopo, a sorpresa Bonafede rettifica quelle cifre: rivela che in realtà la scorsa primavera la pandemia aveva riportato a casa «solamente» 223 reclusi pericolosi: gli altri 275 erano stati rispediti alla detenzione o all’arresto domiciliare per cause diverse dal coronavirus. La confusione che per mesi ha regnato al ministero della Giustizia e al Dap è come minimo sconcertante. Resta il fatto che – se sono vere le nuove cifre del ministero – esattamente metà di quei detenuti pericolosi, 112 su 223, è ancora a casa. Ed è vero, come sostiene Bonafede, che alcuni dei boss mafiosi sono poi rientrati in cella, come Iannazzo, Bonura e Di Piazza. Ma è altrettanto vero che altri mafiosi come Giuseppe Pino Sansone, l’ex vicino di casa di Totò Riina, sono sempre a casa. O come Francesco La Rocca, l’ottantaduenne padrino di Caltagirone, o Gino Bontempo, il capo della «mafia dei pascoli».
Pasquale Zagaria, in particolare, si trova ancora in stato di detenzione domiciliare, a casa di sua moglie a Pontevico, in provincia di Brescia. A metà maggio il Dap, evidentemente di nuovo efficace sotto la gestione di Petralia, aveva chiesto che il condannato tornasse in cella a Viterbo perché aveva individuato per lui il reparto di «medicina protetta» dell’ospedale di Belcolle. Ma così non è stato. Un’udienza che si doveva tenere il 22 maggio è stata rinviata per un’eccezione di nullità presentata dai difensori di Zagaria. Poi, il 9 giugno, il Tribunale di sorveglianza di Sassari ha individuato una possibile questione d’illegittimità costituzionale nel decreto 29 del ministro Bonafede: per i giudici sardi, la norma lederebbe il diritto dell’imputato alla salute e a non subire trattamenti inumani, ma anche l’autonomia e l’indipendenza della magistratura, in quanto «il decreto tende a estrinsecare un’illegittima inferenza del potere esecutivo su quello giudiziario». Così, tre mesi fa, gli atti relativi al caso Zagaria sono stati trasmessi alla Corte costituzionale. E fino a quando la Consulta non si pronuncerà, il boss resterà a casa.
Catello Maresca, il magistrato antimafia napoletano che ha guidato le principali inchieste contro i Casalesi, è a dir poco perplesso: «Aspetteremo la Corte costituzionale e vedremo come si porrà sul tema» dichiara a Panorama. «Certo, dopo tanta fatica per assicurare alla giustizia questi signori, sconcerta che una situazione gestita male possa consentire risultati così negativi». Il magistrato è convinto che il problema non stia tanto nelle leggi, quanto nelle carenze strutturali del nostri sistema penitenziario. È questa la «situazione gestita male» di cui parla: «I mafiosi non sono tornati a casa per colpa di una norma» dice Maresca «ma soltanto perché le strutture carcerarie erano e sono inadeguate dal punto di vista sanitario. È un problema di cui si parla da decine di anni, ma inutilmente».
Se il sistema di detenzione avesse funzionato, questo è il ragionamento del magistrato, il sacrosanto diritto alla tutela della salute di tutti i reclusi sarebbe stato garantito, e non ci sarebbero state tante istanze di detenzione domiciliare. Maresca non ha torto. A metà agosto è stata ri-arrestata proprio la sorella di Michele Zagaria, Elvira: come i suoi fratelli accusata di associazione mafiosa, da maggio anche la donna si trovava ai domiciliari nella sua villa di Boville Ernica, in provincia di Frosinone.
Nel 2019 Elvira Zagaria era stata condannata in appello a Napoli a sette anni di reclusione, ma aveva ottenuto di poter tornare a casa in attesa del processo di Cassazione. «Una volta tornata a casa sua» spiega Maresca «l’imputata dava però concretezza a quello che noi indichiamo essere il rischio principale di questa soluzione: secondo le indagini, riceveva esponenti di spicco e affiliati del clan dei Casalesi, e comunicava direttive».
Ed è proprio questo è il «non-detto» dello scandalo scarcerazioni: l’uscita di un mafioso dalla cella è quasi sempre peggio di una battaglia perduta.
