Dietro il volto della metropoli-vetrina, sono migliaia gli affiliati alle bande di latinos che si contendono spaccio e controllo del territorio con la violenza. E dal capoluogo lombardo la loro influenza si estende nel Nord Italia.
«Tutto comincia con il mirin, un pestaggio da 25 secondi che il nuovo affiliato deve accettare dagli altri componenti della gang senza batter ciglio. Poi c’è il giuramento di fedeltà, e la vestizione con i colori della gang».
Sono i riti d’iniziazione dei membri delle pandillas: le gang di strada d’ispirazione e provenienza sudamericana che, specie negli ultimi anni, hanno innalzato il livello di violenza e azioni criminali in tutto il Nord Italia. L’epicentro è Milano, dove si contano almeno duemila affiliati a varie gang: corso XXII marzo, quasi centro città, è appannaggio dei Ñeta; il parco Trotter, zona nord, dei Barrio 18; a Brenta, zona sud, si segnalano i Latin Forever; mentre viale Monza e Parco Nord, ancora nell’area settentrionale, sono territorio indiscusso dei Latin King; invece Portello – spostato più a nord-ovest – è terreno degli MS13.
Questi i quartieri d’influenza dei latinos di Milano, la cui rete si estende però in tutto l’hinterland lombardo: Corvetto, Assago, Sesto San Giovanni, Cologno Monzese. E si registrano in misura crescente altri «capitoli» – ovvero emanazioni territoriali autonome – a Lodi, Varese, fino a Genova, Roma e persino a Napoli. Nelle scorse settimane, un’operazione ha colpito i Latin King della fazione Chicago, ma il pericolo che rappresentano queste realtà criminali è ormai conclamato. Oggi il fenomeno è talmente esteso e ramificato che il questore di Milano Giuseppe Petronzi, un inquirente che viene dall’esperienza dell’antiterrorismo, non ha dubbi su ciò che rappresentano le gang in Italia: «Un vero fenomeno criminale».
«Spesso in lotta tra loro, alcune bande si alleano strategicamente, ma raramente si uniscono. Il fenomeno riguarda soprattutto le seconde e terze generazioni d’immigrati» afferma il ricercatore e studioso di fenomeni eversivi Giovanni Giacalone. «Sono ecuadoregni, peruviani, salvadoregni, portoricani e dominicani tra i 16 e i 36 anni che, secondo le forze dell’ordine, mantengono legami diretti con i Paesi d’origine. Si segnalano anche contatti con la mafia albanese che opera tra Europa e America Latina, e con bande attive in Spagna, tra le più agguerrite d’Europa: a Madrid e La Coruña, in Galizia, sono ben note le scorribande dei latinos, anche se la capitale europea resta Milano». Particolarmente inquietanti sono i rapporti acclarati tra i Latin Kings (la principale gang che terrorizza il capoluogo lombardo) e i narcotrafficanti centro-sudamericani.
Già nel marzo 2013 l’operazione di polizia Amor del Rey mise in luce il vincolo associativo esistente tra le pandillas e le organizzazioni transnazionali dedite al narcotraffico, da cui scaturirono ben 75 arresti (di cui 18 minorenni). All’epoca, la gang del milanese aveva dato vita a un macabro commercio oltreoceano con i narcos del cartello messicano Los Zetas: per garantirsi lo smercio illega-gale in Italia, imbottivano stomaco e intestino dei cani appositamente scelti di taglia grossa (San Bernardo, gran danese, mastini napoletani e labrador), con ovuli ripieni di droga avvolti nel cellophane. Una volta arrivati a destinazione, uccidevano gli animali e li squartavano per recuperare la merce.
«Dovevo spedire almeno due cani per ogni passeggero. Nell’ultimo anno, sempre attraverso lo scalo di Madrid, sono entrati 48 cani e nessuno di loro è mai stato fermato perché il sistema era davvero infallibile. Ogni cane aveva microchip ed era regolarmente registrato. Con questo metodo sono riuscito a evitare addirittura i controlli dell’aeroporto di Santa Cruz della Sierra in Bolivia, che è uno dei più controllati al mondo. Una volta arrivati a destinazione il cane veniva aperto e la mercanzia estratta, per un totale di circa 1.250 grammi per ogni cane» ha testimoniato in proposito Lenny Barsanti, un italo-colombiano arrestato nel maggio del 2012, perché in contatto con i narcotrafficanti di cocaina del cartello messicano dei Sinaloa (e a sua volta sposato con la figlia di uno dei Los Zetas). Barsanti è stato tra i primi a immaginare che i Latin King fossero in grado di gestire il traffico dello stupefacente più in voga a Milano.
Gli affari di tutte queste gang, infatti, allora come oggi ruotano principalmente intorno al traffico di cocaina e allo smercio al dettaglio. Ed ecco anche la ragione per cui le bande di latinos si scontrano sovente tra di loro: il controllo dei vari quartieri e delle piazze di spaccio è da sempre il perno delle loro azioni criminali, tra spedizioni punitive e risse da strada per affermare la propria supremazia. Ogni gang ha un territorio che deve difendere a costo della vita, perché il territorio di riferimento è un luogo «sacro» e inviolabile dove non si vende soltanto droga, ma si gioca a calcio, si organizzano feste e compleanni. Chi sconfina perciò deve pagare con il sangue.
Nel mondo delle pandillas esiste anche una simbologia precisa, con tanto di colori di appartenenza e ritualità, a seconda del gruppo di riferimento.
L’organizzazione è rigidamente gerarchica secondo capobanda o capibastone (denominati le «corone») che formano un comitato in cui siedono cinque figure apicali, le quali impartiscono gli ordini ai singoli «capitoli» sottoposti al controllo dei gruppi etnici di riferimento. Ciascun nuovo affiliato deve giurare di non abbandonare la Nacíon (il proprio gruppo è considerato una nazione di appartenenza) e di mantenere il segreto sulle attività illecite della pandilla. In caso di disobbedienza, i pandilleros subiscono punizioni corporali e morali, e sono costretti a un risarcimento in denaro. Esistono anche alleanze tra gang, un codice di comportamento comune chiamato Libro Negro, e un «capo dei capi», l’«Inca supremo», che riveste un ruolo riconosciuto a livello internazionale (e di solito è il contatto dei narcos d’oltreoceano).
Altre caratteristiche ineludibili per ogni gang – oltre ai vistosi tatuaggi e alle collane per rimarcare l’appartenenza a un gruppo o a un altro – sono la spietatezza e le armi bianche, con cui si infierisce sugli aggrediti.
Un vero marchio di fabbrica: come nel caso del tentato omicidio avvenuto in via Chiese a Milano il 5 marzo 2022, quando i Latin Kings hanno quasi staccato una mano a colpi di machete a un esponente del clan rivale MS13, soprannominato «Kamikaze». Da qui è scaturita appunto l’importante operazione a cui si faceva riferimento, eseguita dalla Polizia e coordinata dalla Procura milanese, che il 19 aprile scorso ha portato all’arresto di nove appartenenti ai Latin Kings: tutti giovani di Ecuador, Salvador, Perù e anche Argentina, tra 20 e 36 anni, che sono stati accusati tra i vari reati, di associazione a delinquere, tentato omicidio, lesioni personali, rissa, danneggiamento, furto aggravato. A contendere lo scettro di organizzazione più violenta a questa pandilla, sono proprio i latinos di MS13, acronimo di La Mara Salvatrucha, considerata la gang di strada più attiva in circolazione. Il termine «mara» significa «banda», mentre Salvatrucha si riferisce in parte al Paese, El Salvador («Salva»), e al concetto di ingegno («Trucha» è un termine gergale che sta per «sveglio», «acuto»). Il numero 13, infine, si riferisce invece alla tredicesima lettera dell’alfabeto, quindi la M.
Le origini dei mareros affondano negli anni Ottanta, nei quartieri poveri di Los Angeles, dove furono fondate le prime maras, che si segnalarono subito per le violente estorsioni e controllo del territorio.
Per l’Italia adesso il rischio è che tra i giovani attecchisca il fenomeno delle Latin Queen, ovvero nient’altro che la versione femminile e non meno violenta delle gang latine, già ben conosciuto in Spagna. A raccontare il fenomeno per prima è stata una delle fondatrici della gang, Mariah Oliver, che è appena uscita con il libro autobiografico Latin Queen: Ascenso, caída y renacer desde el corazón de una banda, dove ripercorre la sua esperienza come madrina delle Latin Queen nella capitale spagnola, fino all’arresto e una detenzione di oltre dieci anni.
