Quasi il 40 per cento degli anziani, in Italia, partecipa ad attività culturali, e crescono le università dedicate alla terza età. Ma queste strutture non sono ancora abbastanza e i finanziamenti statali scarseggiano. Eppure investire su ultrasettantenni attivi e competenti è un’occasione preziosa per un Paese ad alta longevità.
Dicevano i greci che la cultura è un ornamento nella buona sorte e un rifugio nell’avversa. Recenti ricerche sulla rivista internazionale Cities aggiungono che c’è più benessere psichico e minore consumo di farmaci dove c’è più cultura. Nel nostro Paese, le persone fra 65 e 74 anni che hanno partecipato ad almeno un evento culturale sono il 38 per cento (dati Istat), mentre negli ultimi cinque anni sono cresciuti del 30 per cento gli «anziani» che dichiarano interesse per le varie offerte di apprendimento. Eppure, nella stessa fascia di età, gli iscritti ad attività di formazione sono solo il 12 per cento.
Volendo indagare le ragioni di questo paradosso, si dovrebbe partire da un’esplorazione del mondo delle università per la terza età, dedicate a tutti gli adulti, in particolare quelli avanti con gli anni, che sentono la necessità di imparare. Di queste, le principali realtà nazionali sono: Auser Cultura (Associazione per l’invecchiamento attivo), Federuni (Federazione italiana università della terza età), Unieda (Unione italiana di educazione degli adulti), Unitre (Università delle tre età), UniTreEdu (Unitre education), Unla (Unione nazionale per la lotta contro l’analfabetismo).
Progetti simili sono l’Università di Strada, coordinata dall’Unieda, e Miniconvegni di medicina (da un accordo tra Federanziani e Unieda), che durante il lockdown ha visto la partecipazione di 20 mila anziani collegati online. A parte UniTreEdu, nuova realtà che offre contenuti e lezioni esclusivamente online, le altre università per adulti hanno 1.004 sedi, per un numero totale di iscritti che nell’anno accademico 2019-2020 ammontava a più di 400 mila.
La loro distribuzione mostra un’altra anomalia: al Nord ci sono 472 sedi contro 191 al Sud e 341 nel Centro Italia. Tutte si propongono non solo di arricchire il bagaglio culturale di lavoratori, pensionati e persone curiose che non hanno potuto completare i loro studi, ma di fare molto altro: aiutarli a imparare una nuova lingua, acquisire competenze informatiche, apprendere tecniche di scrittura creativa e perfino affinare le proprie abilità nell’arte, nella cucina o nella danza. Nella stragrande maggioranza dei casi, i costi di iscrizione si aggirano sui 200 euro annuali, paragonabile a quello di un abbonamento internet per un anziano la cui pensione media netta ammonta a circa 1.140 euro mensili. I corsi sono tenuti da accademici ed esperti in una data materia, talvolta retribuiti con cifre irrisorie o che insegnano come volontari.
«Il nostro problema è la mancanza di aule a fronte di un numero di iscritti di circa mille persone a Milano e 1.500 in provincia» dice Laura Pischedda, volontaria dell’Università della terza età di Auser Insieme Milano. «Inoltre, ottenere di volta in volta dal Comune una struttura per le conferenze richiede tempo ed energia; e vincere la resistenza degli anziani a spostarsi con i mezzi pubblici per venire alle lezioni è spesso assai difficile. Nonostante ciò, organizziamo corsi di alto profilo con docenti che, sebbene ricevano un compenso non elevato, hanno curriculum di tutto rispetto e riescono a entusiasmare gli iscritti».
Gli aiuti complessivi da parte delle Regioni ammontavano, fino a diversi anni fa, a circa 300 mila euro. «Oggi molte hanno azzerato i loro contributi, le poche altre erogano ciascuna meno di 70 mila euro per tutte le strutture» rivela Francesco Florenzano, presidente dell’Università popolare di Roma. «Detto ciò, noi offriamo corsi di eccellenza come quello del sommelier Ermanno Mino a Biella». I centri dedicati agli anziani hanno storie diverse che ne determinano la fisionomia. L’Unitre, con il maggior numero di iscritti e sedi sul territorio (rispettivamente 80 mila e 350), nasce a Torino nel 1975 per iniziativa di gruppi di volontari, con l’intento di essere slegata da interessi politici e l’obiettivo di restituire motivazioni a persone di ogni età emarginate o escluse dal processo produttivo. È quella con l’impostazione più accademica, sia come curriculum dei docenti e programmi di studio, sia come possibilità di ottenere diplomi e crediti formativi.
Università popolari come Auser Cultura hanno radici politiche e sociali, essendo nate dal sindacato dei pensionati Spi-Cgil. Con un taglio meno accademico, non puntano a ottenere certificazioni bensì a diffondere la cultura e favorire la socialità tra gli iscritti. Una novità è la nascita di UniTreEdu, progetto di Unitre Milano che offre la possibilità di frequentare online lezioni tenute da accademici su un vasto numero di materie. Ne possono usufruire non solo adulti che desiderano ampliare le proprie conoscenze ma anche anziani che hanno difficoltà a spostarsi o vivono in luoghi dove queste realtà non esistono.
«Ci siamo resi conto che il progetto poteva funzionare benissimo durante la pandemia, quando abbiamo trasferito i corsi su un sistema interattivo online con notevole successo» racconta Silvio Bolognini, rettore di Unitre Milano e fondatore di UniTreEdu. «E abbiamo capito che queste università non possono prescindere dalla comunicazione multimediale. Per non parlare del fatto che abbiamo bisogno di espanderci, visto che paghiamo 200 mila euro di affitto della sede a una società partecipata del Comune di Milano. Chi frequenterà questi corsi avrà a disposizione una rete di accademici e riviste di ricerca consultabili online, e potrà ottenere certificazioni delle proprie competenze che danno un punteggio in diversi concorsi».
È stata da poco presentata da Francesco Florenzano, portavoce di Italia educativa e membro dell’Intergruppo parlamentare «Longevità. Prospettive socio-economiche», una proposta di legge che prevede contributi a carattere nazionale per le università degli anziani e la fornitura di strutture per la didattica in misura non transitoria. I contributi nazionali riguarderebbero fino al 50 per cento della spesa ritenuta ammissibile per le docenze, fino all’80 per cento per le spese relative alle sedi didattiche e fino al 50 per cento delle spese relative ai servizi internet e alle utenze. Resta il fatto che occorrerebbe fare molto di più. Come nota Paolo Federighi, professore onorario di Educazione degli adulti all’Università di Firenze, che ha collaborato con la Commissione europea su questi temi, «le leggi di bilancio sono tutte ispirate a una strategia che privilegia gli investimenti in formazione a favore dei più abili e istruiti, cioè di coloro cui attribuire una funzione di traino dell’economia. Gli investimenti per gli adulti “low skilled”, cioè a bassa qualificazione,vengono rimandati o contenuti attraverso misure di tipo assistenziale dall’impatto limitato».
Su un totale di 10 miliardi l’anno speso per l’educazione degli adulti, lo Stato copre solo 3 miliardi: la maggior parte per la formazione di alto livello dei quadri e molto meno per quella dei lavoratori o di chi è fuori dal mondo del lavoro. Quindi, il mercato dell’educazione si espanderà laddove la domanda di formazione è già forte, escludendo sempre le fasce meno abili e istruite. E con tutta probabilità il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) farà affluire i fondi nella Pubblica amministrazione, migliorando le competenze dei suoi addetti, ma non avrà un impatto significativo sull’educazione degli adulti, dei «low skilled» e di chi non lavora.
«Voucher e incentivi fiscali andebbero concessi anche agli anziani, non solo ai professionisti e ai giovani, e bisognerebbe favorire la nascita di associazioni no profit con misure fiscali» sostiene Federighi. «Inoltre, occorre permettere agli anziani di poter lavorare fin quando vogliono, e formare adeguatamente le figure che devono rispondere alle loro richieste». Altrimenti l’Italia sarà costretta a rinunciare al contributo attivo e competente di una fascia di popolazione in costante espansione, perdendo un’ottima opportunità di crescita.
