E’ caos a Beirut all’indomani dell’esplosione devastante che ha distrutto “metà” della capitale libanese. Mentre le ambulanze si fanno strada nel traffico, mancano all’appello ancora decine di persone, intrappolate sotto le macerie e il bilancio delle vittime ha superato quota 100, con 4 mila feriti e 300 mila senzatetto. Ma il numero di morti è destinato a salire.
L’esplosione, alle 18 locali, ha creato una nuvola a forma di fungo che ha coperto l’area del porto e i quartieri circostanti. Era di colore arancione segno che conteneva il gas tossico di biossido di azoto, un elemento che accompagna spesso le deflagrazioni con nitrati. Il presidente Michel Aoun ha precisato che l’esplosione è stata causata da 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, custodite in modo non sicuro in un magazzino. E’ una sostanza usata come fertilizzante in agricoltura ma può essere trasformata in un esplosivo.
Il governatore della città ha dichiarato che i danni coinvolgono metà del centro urbano. Gli ospedali non hanno più posti per curare i feriti. I corpi gettati in mare dalla forza dell’esplosione sono stati tirati fuori dall’acqua. Il capo della Croce Rossa del Libano, George Kettani, ha descritto quanto è successo come una “grande catastrofe”, “Ci sono vittime ovunque” ha aggiunto. Una fonte della sicurezza ha riferito che l’esplosione è stata innescata da lavori di saldatura eseguiti in un magazzino. Anche il principale silos di grano del Libano nel porto di Beirut è stato distrutto, lasciando la nazione con meno di un mese di riserve di grano ma abbastanza farina per evitare una crisi, secondo il ministro dell’Economia Raoul Nehme.
L’esplosione è stata avvertita anche a 240 kilometri di distanza sull’isola di Cipro, nel Mediterraneo orientale. Molti hanno pensato che fosse un terremoto. Il presidente Aoun ha dichiarato tre giorni di lutto da oggi. Aprendo una riunione del gabinetto di emergenza, ha affermato: “Nessuna parola può descrivere l’orrore che ha colpito Beirut la scorsa notte, la città è stata colpita dal disastro”.
L’esplosione arriva in un momento delicato per il Libano. Con i contagi da Covid-19 in aumento, gli ospedali stavano già faticando per far fronte alla pandemia. Ora devono preoccuparsi di curare anche i feriti causati da questo disastro. Ma il Paese sta attraversando pure la peggiore crisi economica dalla guerra civile. Aoun ha annunciato che il governo stanzierà 100 miliardi di lire, 66 milioni di dollari di fondi di emergenza, ma i danni ammontano a più di 3 miliardi di dollari.
Anche prima dell’esplosione, il Libano era attraversato da tensioni elevate, con manifestazioni di piazza contro la corruzione del governo e il sistema settario. In Place des Martyres nel centro della capitale migliaia di persone lo scorso autunno gridavano “Killon iani killon”, “Tutti vuol dire tutti”, cioè dimissioni di tutta la classe politica. Molti infatti ritengono responsabile della devastante crisi economica del Paese l’élite al potere in politica da anni che ha accumulato la propria ricchezza senza riuscire a realizzare le riforme necessarie per risolvere i problemi della nazione. Le persone hanno a che fare con interruzioni di corrente giornaliere, mancanza di acqua potabile e una sanità pubblica inefficiente.
Nelle ultime settimane è cresciuta anche tensione al confine con Israele. La scorsa settimana lo Stato ebraico ha dichiarato di aver impedito un tentativo di infiltrazione nel territorio israeliano da parte di Hezbollah, l’organizzazione militante islamista sciita che esercita un notevole potere in Libano alleata di Teheran. Il Consiglio supremo della difesa del Libano ha dichiarato che i responsabili dell’esplosione dovranno affrontare la “massima punizione” possibile. L’esplosione è avvenuta vicino al luogo dell’assassinio dell’ex primo ministro Rafik Hariri nel 2005. Venerdì ci sarà l’annuncio del verdetto del Tribunale speciale per il Libano istituito dalle Nazioni Unite per far luce sull’omicidio. Il procedimento vede come imputati quattro presunti membri di Hezbollah.
Secondo più fonti però Israele non ha alcun legame con l’esplosione di Beirut. Diversi paesi, tra cui lo Stato ebraico, hanno offerto aiuti al Libano. Il direttore dell’ospedale della Galilea occidentale di Nahariya, Masad Barhoum, ha dichiarato di essere “pronto a accogliere i feriti”. Il sindaco di Tel Aviv Ron Huldai ha dichiarato che la bandiera del Libano illuminerà l’edificio del comune di Tel Aviv questa sera in solidarietà con le vittime della massiccia esplosione. “L’umanità viene prima di ogni conflitto, e il nostro cuore è con il popolo libanese che ha subito questo terribile disastro “, ha scritto Huldai su Twitter.
Sono arrivate offerte di sostegno internazionale anche dagli Stati arabi del Golfo. E Teheran ha offerto cibo e un ospedale da campo. Il presidente iraniano, Hassan Rohani ha affermato: “Speriamo che le circostanze di questo incidente siano chiarite al più presto e che la pace ritorni a Beirut”. Il primo ministro libanese Hassan Diab, in un breve discorso televisivo, ha fatto appello a tutti i paesi e gli amici del Libano. “Gli Stati Uniti sono pronti ad aiutare il Libano”, ha fatto sapere il presidente degli Stati Uniti Donald Trump durante un briefing alla Casa Bianca, aggiungendo: “Sembra un terribile attacco”. Le bandiere libanesi nel palazzo presidenziale di Baabda e il Grand Serail a Beirut sono state messe a mezz’asta. Le banche, che oggi hanno chiuso i battenti, hanno tuttavia annunciato che riapriranno giovedì. Nel giorno dopo l’apocalisse Beirut si risveglia ancora in un incubo, e il fantasma della guerra civile aleggia tra i suoi palazzi in macerie.
Ricostruire il porto, prendersi il paese
Il porto è distrutto. E con esso ogni speranza di rinascita economica del Libano, la «nazione martire» che non si è mai davvero resa indipendente dalle spinte geopolitiche e geoeconomiche della regione mediorientale. E che oggi affronta una crisi economica quasi senza precedenti. Con la lira libanese svalutata (il cambio per un dollaro è passato da 1.500 a quasi 10.000 lire) e l’inflazione schizzata alle stelle (109%). E con tre quarti della popolazione che non riesce ad accedere ai beni di prima necessità né a pagare le utenze.
Senza contare la crisi sanitaria (anche qui li Coronavirus ha colpito duro), quella alimentare (il Libano non produce ma importa praticamente tutto dall’estero e mezzo milione di bambini rischiano la fame) e politica (il governo tecnocratico libanese poco prima dello scoppio della pandemia stava dichiarando bancarotta), che espongono il Paese a una immane tragedia.
Chi ricostruisce il porto, avrà il potere
Qualunque sia stata la causa del disastro al porto di Beirut, un fatto è certo: chi lo ricostruirà avrà un potere immenso, e chi si aggiudicherà gli appalti si sarà comprato non solo la città ma l’intero Paese. Ed è proprio sotto quest’ultimo aspetto che si devono concentrare le indagini e analizzare i sospetti sulle reali cause dell’esplosione.
Bisogna tornare alla politica per provare a trovare una spiegazione logica alla tragedia che ha spazzato via il cuore economico della città, insieme con i suoi preziosi depositi – il silos che si staglia sul porto conteneva il grano per sfamare l’intera popolazione locale – le sue sedi di giornali (come Al Nahar e Orient le Jour), le zone della Beirut laica, giovane e borghese, e la simbolica piazza dei Martiri, teatro storico delle più importanti proteste del Libano.
Una prima pista l’ha offerta in effetti lo stesso presidente Michel Aoun, quando ha detto che aver stoccato lì quel materiale pericoloso senza misure di sicurezza è «un fatto inaccettabile». Il primo ministro Hassan Diab gli ha fatto eco, sostenendo che «i responsabili ne pagheranno il prezzo». Ma i responsabili sono arcinoti. Si chiamano Hezbollah, e rappresentano il vero potere politico non soltanto a Beirut, ma anche in tutto il sud del Libano, emanazione di un più ampio governo che risiede a Teheran, in Iran, di cui Hezbollah è la longa manus.
Un potere che i miliziani sciiti hanno conquistato con le armi e a suon di «bombe sporche», realizzate proprio con quel nitrato di ammonio responsabile della gigantesca deflagrazione che ha disintegrato il porto di Beirut.
Il «fertilizzante di Hezbollah»
Questo fertilizzante chimico è usato molto spesso da ogni tipo di terroristi, quando non si trova il plastico. Duttile e poco sospetto (si può acquistare nei mercati agricoli), è impiegato specialmente per condurre attentati in grande stile: mischiato a benzina e altri ingredienti, diventa perfetto per lanciare le auto-bomba dei kamikaze.
Ne è stato fatto largo uso in Afghanistan come in Africa, e più recentemente in Medio Oriente dagli uomini dell’ISIS. È stato il New York Times nel 2015 a documentare il continuo via vai di tir carichi di fertilizzanti che attraversavano il confine turco, diretti in Siria. Sappiamo poi quale uso ne sia stato fatto. Il nitrato fu usato anche nell’attentato di Oklahoma City del 1995, e un composto simile venne impiegato per il primo attentato alle Torri Gemelle nel 1993.
Quindi, se qualcuno lo ha stoccato e nascosto tra i depositi prospicienti il mare, sono stati proprio i miliziani del «Partito di Dio». Che nel porto di Beirut rappresentano l’autorità de facto, dove gestiscono ogni tipo di traffici: armi, uomini, droga e molti altri ancora. E dove si trovano anche altri arsenali appartenenti a loro (che verosimilmente sono esplosi insieme a tutto il resto).
Certo, di qui a provocare una simile tragedia ce ne passa. E forse davvero si è trattato di una leggerezza, un incidente che ha provocato un’ecatombe. Ma una così grande concentrazione di quel tipo di fertilizzante lasciato senza le dovute cautele, non ha ragion d’essere in un porto come Beirut. E infatti non serviva affatto a concimare i campi agricoli libanesi, ma era il frutto di un maxi-sequestro avvenuto nel 2014, quando una nave sospetta diretta in Zambia via Mozambico aveva avuto un guasto e aveva dovuto riparare a Beirut.
Guarda caso, proprio allo scoppiare della guerra civile nella confinante Siria, dove Hezbollah non solo ha combattuto in prima linea, facendo largo uso anche di autobombe, ma ha tentato anche di annettere territori in nome e per conto di Teheran.
L’ex direttore della dogana Shafiq Marei e quello attuale Badri Daher avevano più volte sollecitato la rimozione del materiale altamente esplosivo. Ma non hanno avuto risposta, forse perché non si poteva chiedere a Hezbollah di smantellare il proprio arsenale.
Il ruolo di Israele e dei sauditi
Qualcuno si spinge invece ad accusare l’arci-nemico Israele, la cui politica in materia di intelligence è nota: una dottrina che, inaugurata dal premier Menachem Begin, consiste nel ritenere pienamente legittimo qualsiasi intervento punitivo di Israele volto a prevenire la sua distruzione da parte di Paesi nemici. Ed hezbollah, in effetti, non perde occasione di ricordare al mondo che desidera la scomparsa di Israele dalla faccia della terra. Tuttavia, Israele non miete vittime civili, e su questo principio ha fondato ogni azione di guerra o di sabotaggio.
Meno accorti sono invece i sauditi, che nella lotta di potere contro l’Iran hanno dimostrato di non guardare in faccia a nessuno per raggiungere i propri scopi. E lo scopo di Riad è uno soltanto: impedire all’Iran di creare quel corridoio sciita che da Teheran porta dritto a Beirut via Baghdad e via Damasco. E per questo obiettivo si può anche far saltare in aria un intero porto «nemico».
Non va dimenticato che soltanto lo scorso 2017 il premier libanese (ma di origine saudita) Saad Al Hariri fu richiamato in Arabia Saudita e qui sequestrato per due settimane. Il motivo? Hariri aveva tentato di smarcarsi da Riad, formando un governo con l’appoggio proprio del nemico Hezbollah. Fu liberato solo dopo che Riad ottenne l’assicurazione da parte di Hariri che avrebbe convinto Hezbollah a non sostenere più le milizie Houthi dello Yemen, che stavano combattendo contro l’Arabia Saudita per conto dell’Iran.
Peccato che poi la guerra in Yemen sia proseguita, che Hariri sia decaduto, e che anzi gli Houthi abbiano sferrato nel settembre del 2019 un attacco mortale all’Arabia Saudita, colpendo i due più grandi stabilimenti d’idrocarburi al mondo, che si trovano ad Abqaiq e nell’area di estrazione di Khurais, nell’est dell’Arabia Saudita.
Poiché la risposta a questo attacco non è mai arrivata, fonti d’intelligence mediorientali ritengono plausibile che il colpo ferale al Libano, crocevia di ogni interferenza geopolitica mediorientale e Paese conteso dai due grandi player regionali, sia una ritorsione saudita per quell’attacco.
La ricostruzione
Incidente o meno, fuori dai complotti c’è da credere che in molti saranno i Paesi «volontari» che si litigheranno la ricostruzione del porto di Beirut. Certamente la Cina, la Turchia, la Russia; e così pure l’Italia, la Francia, la Germania e gli Stati Uniti. E, appunto, l’Arabia Saudita, insieme con gli Emirati Arabi. Chi tra queste potenze s’intesterà la rinascita libanese, metterà una fiche importante sul dominio mediterraneo: dopo che già i russi si sono presi il porto di Latakia in Siria, i turchi l’intera Cipro e un pezzo rilevante di Libia, e gli iraniani mantengono Beirut, difficilmente Washington permetterà un’ulteriore espansione di Paesi non allineati alle linee guida dell’Amministrazione Trump.
Ammesso che il presidente in carica resti lui, l’alleato Israele vorrà avere certamente voce in capitolo affinché Beirut non si sottometta a un governo straniero e nemico. Questo significa che sarà probabilmente Riad a tentare di innestarsi più stabilmente a Beirut per riequilibrare le sorti dell’alleanza Washington-Gerusalemme-Riad, inaugurata proprio da Trump. La Casa Bianca (anche se alla guida ci sarà Joe Biden) farà di tutto per evitare che Pechino arrivi fino in Libano, dopo che già l’Africa è divenuta terra di conquista del partito comunista.
Difficilmente, invece, l’Italia – il cui ruolo guida in Libano della missione Unifil è un vanto internazionale – potrà avere molta voce in capitolo: se l’ingegneria e l’imprenditorialità italiane hanno tutte le carte in regola per conseguire risultati significativi, Roma sconta la grave impreparazione della sua classe politica. Con un sottosegretario agli Esteri (Manlio di Stefano) che ha addirittura scambiato il Libano per la Libia, le speranze di contare nella partita per il futuro libanese appaiono quantomeno ridotte.
