È stato uno dei serial killer più sanguinari: 17 persone uccise in sei mesi nelle città e sui treni di Liguria e Basso Piemonte. Un libro racconta la sua figura, i delitti e quella paura vissuta dall’Italia a fine anni Novanta.
«L’ultima prostituta? È stato lassù a Pietra, le ho sparato in testa vicino all’autostrada. Non era alta ma bella attrezzata, e per quello che dovevo farci ce n’era d’avanzo. L’avevo caricata a bordo della Kadett sul rettilineo di Albenga, offrendole un sacco di soldi che tanto non le avrei mai dato». Diciassette omicidi in sei mesi, 17 gradini verso l’inferno di Donato Bilancia detto Walterino, l’ultimo serial killer italiano: l’assassino dei treni che 25 anni fa terrorizzò Liguria e Basso Piemonte e riempì le pagine dei giornali, mentre gli italiani increduli d’essere finiti dentro un brutto film ambientato alla periferia di Milwaukee assistevano a un’imponente e surreale caccia all’uomo.
Quella del ladruncolo giocatore d’azzardo trasformato in assassino seriale non è solo una storia noir, ma un trattato di psichiatria, un bigino di aberrazioni famigliari, un viaggio al termine della notte in cui l’unica consolazione sta nel sapere che prima o poi finisce. Quando i carabinieri, sospettando di lui, nel marzo 1998 perquisiscono in sua assenza il trilocale dove abita a Genova, trovano tutto perfettamente in ordine. L’unico particolare in disordine era rappresentato «da un plaid scozzese gettato senza cura sul divano: sotto ci trovarono la Smith&Wesson con ancora quattro cartucce inserite nel tamburo. Forse le stava conservando per sé. Le altre erano servite, secondo il suo programma e la sua consecutio temporum, per cancellare le vite di Giorgio, Maurizio, Carla, Maria Luigia, Bruno, Luciano, Giangiorgio, Almerina, Ljudmila, Enzo, Massimiliano, Candido, Tessy, Elisabetta, Mema, Maria Angela e Peppino».
Il primo un biscazziere, l’ultimo un benzinaio, in mezzo un cambiavalute, un’infermiera, una baby sitter, un metronotte, un orefice, alcune squillo. Tutte vittime innocenti di un mostro che fumava come Bogart, aveva la voce scartavetrata, collezionava cappellini da baseball, da ragazzo bazzicava la compagnia di Beppe Grillo, era soprannominato la belinetta (il tontolone), amava il film Regalo di Natale di Pupi Avati. E dopo gli omicidi telefonava alla mamma, come ogni giorno, per uno scambio di dolci convenevoli.
Con uno stile hard boiled che avvince e il culto del dettaglio alla Truman Capote, il viaggio di Walterino verso l’inferno è tutto in un libro che un quarto di secolo dopo prova a delineare il perimetro dell’orrore. S’intitola Il torto e lo ha scritto Carlo Piano, giornalista di lungo corso che seguì da cronista quei mesi di sangue, poi l’interminabile iter giudiziario, infine il destino carcerario del serial killer condannato a 13 ergastoli, fino alla morte per Covid nel dicembre 2020. E che adesso riassume: «Ho deciso che era arrivato il momento quando mi sono ritrovato davanti la montagna di documenti: 75 faldoni, 90 mila pagine, 80 fascicoli di intercettazioni telefoniche, tabulati, video, tutto di fronte a me. Ci ho lavorato due anni, sono tornato sui luoghi dei delitti che emanano ancora permanenze sinistre. Ho incontrato chi lo ha conosciuto e chi non avrebbe mai voluto conoscerlo. Ho pianto con loro. Poi tutto quello che ho raccolto ed elaborato l’ho riversato nel libro come un rito liberatorio. Forse mi servirà per affrancarmi da lui, spero per sempre».
Quella di Bilancia è la storia di un’infanzia sbagliata, di un padre autoritario «che si preoccupava solo che ci fosse un piatto di minestra in tavola» e metteva ad asciugare sul balcone – perché tutti vedessero – il materasso dove il bambino aveva fatto la pipì di notte. È la storia di una madre descritta come «un automa telecomandato e sottomesso, botte e cinghiate in abbondanza, mai una carezza». È la storia tremenda di un fratello che si suicida gettandosi sotto un treno con il figlioletto in braccio. È un frullato di disperazione, disillusione, superficialità utilizzate come uno scafandro, con il carico da undici di un profilo psicologico complesso, fra bullismo, solitudine, sindrome da pene piccolo. È la necessità, anzi l’urgenza, di avere in tasca soldi avvolti nell’elastico, mazzette di denaro per giocare l’ultima mano prima che arrivi l’alba. Disse durante un interrogatorio: «La generosità è una pulsione che non sono mai riuscito a controllare. Per sentirmi alla pari con un tizio che mi ha fatto un semplice favore, la proporzione con cui ricambio deve essere di tre a uno». La stessa proporzione che utilizza, nel semestre del cuore di tenebra, per restituire torti inventati o solo presunti.
I mesi del terrore dilagante sono quelli in cui ammazza sui treni. Sale in carrozza la sera, si mimetizza fra i pochi passeggeri, sceglie la vittima, aspetta che entri in bagno (o che lo scompartimento a sei posti si svuoti) e la aggredisce. Intercity La Spezia-Venezia, regionale Genova-Ventimiglia. La paura diventa panico, il procuratore capo del capoluogo ligure «raccomanda i viaggiatori di osservare comportamenti prudenti». Si sparge la voce che il sabato sia il suo giorno preferito per colpire, una soffiata prevede che la prossima vittima sarà sul Milano-Genova e la Digos fa pattugliare le carrozze da agenti in borghese. La comédie humaine della società mediatica non rinuncia a esibire il peggio (parola di testimone). Commercialiste di Acqui Terme vengono scambiate per donne poliziotto che fanno da esca, giornalisti simil yankees sono sguinzagliati in seconda classe e non mancano scene assurde: c’è un tipo col giubbotto militare che gli somiglia, ha lo sguardo equivoco. «Favorisca i documenti». È solo un innocuo supplente delle medie.
L’incubo finisce quando Bilancia viene arrestato per un incrocio di dati fra Dna reperiti sul luogo dei delitti, l’identikit fornito da Lorena (un transessuale scampato alla mattanza) e una curiosa coincidenza con i numeri di targa: è tradito dal vizietto di incolonnarsi al casello dietro le macchine col Telepass per non pagare l’autostrada. Dentro il carcere di Marassi, nella cella che ospitò Lucky Luciano, confessa tutto. Al magistrato che vorrebbe attribuirgli solo gli ultimi delitti spiega: «Senta, meglio partire dall’inizio, la consecutio temporum prevede una cosa che è successa prima. Sono responsabile di una strage».
Piano indaga nelle pieghe dei fatti ma soprattutto nei carrugi, negli ambienti e nei deliri di questa mente feroce, destinata ad ammorbidirsi solo con il combinato disposto dell’età e del senso di colpa. «La mia coscienza è tormentata dal rimorso, quando a inseguirti sono i fantasmi non riesci a seminarli» dirà in una delle rare interviste «perché non voglio fare la fine delle scimmie ammaestrate». Rinchiuso nel carcere Due Palazzi di Padova, il Walterino comincia a percepire la cognizione del dolore. Prende il diploma di ragioniere, suona Imagine e La vie en rose con la chitarra Ibanez alla festa di Natale. Soprattutto decide di destinare la sua pensione di invalidità (550 euro) a un bambino di otto anni affetto da sindrome di Down.
Vorrebbe vederlo cinque minuti per fargli una carezza, per sentire – la prima volta nella vita – il calore dell’umanità. Il giudice di sorveglianza però decide che è ancora «socialmente pericoloso e psicologicamente disturbato», incapace di gestire momenti di rabbia e frustrazione. Dice no, anche perché «oltre a non essersi pentito dei crimini, li ha condannati solo in maniera formale e meccanica». Allora la botola si richiude sulla penombra del serial killer triturato dalla depressione proprio mentre l’Italia è immersa in un altro incubo, quello della pandemia. E l’assassino che aveva fatto tremare un Paese sceglie di andarsene.
«Sapeva fin dall’inizio che la conclusione di tutta la faccenda sarebbe stato un suicidio o qualcosa del genere», spiega l’autore. Così, quando contrae il Covid, semplicemente decide di non farsi curare. Niente respiratore, niente casco, niente di niente. «Uno come me deve morire». Mentre fuori nevica, aspetta che un virus più letale di lui faccia il suo dovere in silenzio, ripetendo sottovoce quei 17 nomi scolpiti sulla parete della cella. E facili da ricordare come una macabra filastrocca.
