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Cronache della follia

Cronache della follia

Hanno problemi psichiatrici cronici, in troppi casi sottovalutati o mal curati. E 45 anni dopo la Legge Basaglia che chiuse i manicomi e «liberò i matti», e senza strutture specializzate che li seguano in modo efficace, ecco che si moltiplicano gli episodi di violenza (e gli omicidi), commessi da pazienti con la mente alterata. Abbandonati a sé stessi, o a carico di famiglie che non riescono – e non possono – gestirli.


Le anime perse vivono come fossero in guerra anche in tempi di pace. Prigionieri delle loro menti alterate, a volte salgono in alto e si lanciano nel vuoto, o si gettano tra i binari di un treno. Oppure, impugnando armi che mai dovrebbero avere, si scagliano contro nemici immaginari, perfetti estranei o, più spesso, familiari, senza capire nemmeno cosa stanno facendo. Il 28 dicembre scorso, a Padova, un’ex vigilessa di 51 anni ha ucciso la madre e ridotto in fin di vita il padre. Soffriva da tempo di disagio mentale. Sempre a fine dicembre, due giovani italiani, Francesca Di Dio e Nino Calabrò, sono stati massacrati in un appartamento inglese (nel North Yorkshire) da un conquilino con problemi psichici. E il mese precedente, gli episodi di violenza scaturiti dai «demoni interiori» sono stati tre. «Avevo talmente tanta rabbia che avrei fatto qualcosa contro me stesso o contro di lei» ha detto un giovane di Alessandria, con problemi psichiatrici, che il 25 novembre ha ucciso la madre cercando di disfarsi del corpo nell’immondizia.

«Disturbo antisociale della personalità»: di questo invece soffriva Giandavide De Pau, il 51enne serial killer che a Roma ha ammazzato tre donne. «Non volevo ucciderlo ma mi perseguitava» ha confessato Francesco De Felice, il giovane che, a Treviso, il 18 novembre ha colpito il padre con una spranga e lo ha finito con un coltello, convinto di vivere in una finzione dove tutti lo spiavano. Era «normale» fino a quest’estate, assicurano gli amici, ma «ultimamente non era più lui». Certo, le statistiche dicono che solo il 3-4 per cento di tutti gli atti di violenza viene commesso da soggetti affetti da malattia mentale. E a ogni nuova tragedia si dirà che in fondo si tratta di una minoranza, e sono molto di più i delitti di mafia, gli omicidi premeditati, i femminicidi…

Vero. Ma, senza girarci troppo attorno, la domanda che molti si fanno è: «Com’è possibile che queste persone instabili non vengano seguite, curate, sorvegliate prima che sia tardi? Siamo sicuri che la legge 180, che nel 1978 aprì i manicomi, non abbia creato anche tanti problemi?». All’epoca, sull’onda dell’entusiastica rivoluzione trainata dallo psichiatra Franco Basaglia, che ne divenne il simbolo, l’Italia fu il primo Paese al mondo a «liberare» i matti (all’estero lo fecero molto dopo, gradualmente, e senza clamori). La decisione fu presa anche dietro pressione dei sindacati degli infermieri e con la volontà della classe politica di allora (a firmare la legge 180 fu lo psichiatra e senatore dc Bruno Orsini).

Ma non mancarono dubbi e opposizioni. Il deputato comunista Antonello Trombadori, che pure aveva votato sì alla Legge 180, si disse presto pentito: «La 180 prevede due soluzioni per chi soffre di mente: il nulla o l’ospedale criminale». Leonardo Sciascia la definì «un disastro. Famiglie distrutte». E Mario Tobino, psichiatra e scrittore (suo il celebre Le libere donne di Magliano in cui rievoca il manicomio di Maggiano, da lui diretto per 20 anni), lamentava che «diversi malati, dimessi dai manicomi, spinti fuori nella società per guarire, come proclamano i novatori, sono già in galera per atti che hanno commesso».

Oggi, a 45 anni di distanza, nessuno psichiatra mette in dubbio la necessità della Legge Basaglia. I manicomi peraltro ospitavano solo una minima parte della popolazione psichiatrica italiana: «Dentro c’erano circa 90 mila persone su 58 milioni di abitanti» precisa Paolo Milone, psichiatra e autore del libro L’arte di legare le persone (Einaudi). «L’Italia era allora un Paese contadino, bipolari gravi o schizofrenici dormivano con gli animali e li mettevano a lavorare nei campi. Era quella, a voler ben vedere, l’epoca dell’abbandono dei “matti”. E la chiusura dei manicomi, al di là di Basaglia, fu resa possibile soprattutto grazie alla scoperta degli psicofarmaci. Oggi la difficoltà di seguire le persone con malattia mentale è dovuta al fatto che se ne curano molte di più, centinaia di migliaia. Ma il paziente psichiatrico non basta vederlo e dargli la terapia, andrebbe trattato nel tempo».

Aprire le porte dei manicomi fu, in un certo senso, la cosa più facile. Da lì in poi iniziava il vero lavoro. La pazzia non venne abolita per decreto, e la libertà non era necessariamente «terapeutica» come affermava Basaglia. Al netto delle sue convinzioni («la malattia mentale non esiste in quanto tale, viene indotta dalla società nei soggetti che rifiutano le sue logiche»), lui stesso non nascose perplessità sulla riforma della 180: «Bisogna intervenire sul territorio» sosteneva «facendo opera di prevenzione». I manicomi furono via via sostituiti dagli ospedali criminali, oggi smantellati. Al loro posto, per i malati psichiatrici autori di reati, nel 2012 si crearono le Rems (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza) con volenterosi – e velleitari – «percorsi terapeutico-riabilitativi individuali predisposti dalle Regioni». Attualmente in Italia (dati luglio 2021) ne sono attive 30 con 600 posti letto in totale.

Ma, da una recente istruttoria della Corte costituzionale, emerge che sono circa 700 le persone in lista d’attesa per esservi assegnate, con tempi medi di una decina di mesi; e molte di loro, ritenute socialmente pericolose dal giudice, hanno commesso gravi reati. Infine, è sempre la Corte a dirlo, «a causa dei suoi gravi problemi di funzionamento il sistema delle Rems non tutela in modo efficace né i diritti delle potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche potrebbe nuovamente realizzare, né il diritto alla salute del malato, il quale non riceve i trattamenti necessari per superare la propria patologia e reinserirsi nella società».

Chi soffre di patologie mentali ed è senza famiglia vive un po’ dove capita, spesso sui marciapiedi, oppure asserragliato in casa da dove non c’è verso di farlo uscire. Chi invece una famiglia ce l’ha, non per questo viene seguito nel modo più appropriato. Sparsi sul territorio ci sono i Csm, Centri di salute mentale, dove gli operatori «prendono in carico» persone con queste patologie. Ma come funzionano nella pratica lo spiega Antonietta Buonaugurio, rappresentante dell’Arap, Associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica, fondata nel 1981 da familiari e amici di malati di mente: «Il problema grosso, e che dura da tempo, è la carenza di personale: l’appuntamento viene dato non quando serve ma quando si può, a volte passano settimane ed è deleterio perché questi pazienti cambiano spesso volontà da un giorno all’altro».

Meglio una volta, insomma, quando per la follia c’erano luoghi confinati? «Non scherziamo» risponde Eugenio Borgna, per tanti anni primario dell’Ospedale psichiatrico femminile di Novara (il suo, va detto, era un modello di cura e accoglienza). «I malati vivevano in luoghi dove non c’era alcuna forma di dialogo e incontro. Alcuni ospedali psichiatrici, specie nelle grandi città, avevano anche 4 mila pazienti, si immagina cosa sarebbe successo con la pandemia in ambienti simili senza alcuna possibilità di isolamento e libertà?».

«I manicomi toglievano dignità e diritti» ammette Buonaugurio «però la riforma prevedeva di creare strutture territoriali per accogliere e curare queste persone. Cosa che non è stata fatta. C’è stata semmai un’involuzione, ora con le risorse al lumicino i Centri di salute mentale non svolgono più la loro funzione: ossia prevenzione, cura, riabilitazione e reinserimento sociale. I casi di violenza che leggiamo sui giornali sono la conseguenza di questa mancata presa in carico». Ciò che fanno nei Csm, prosegue Buonaugurio, è dare gli psicofarmaci al paziente, ammesso poi che questi li assuma davvero e si ripresenti al Centro. «A volte i familiari si sentono dire che “per privacy non possiamo dare notizie del suo congiunto”, come le medicine che sta prendendo, perché “suo figlio è maggiorenne e non siamo tenuti a dare informazioni». Così, in tutti questi anni, la decisione di superare l’istituzione manicomiale ha finito per scaricare il peso sulle famiglie, impotenti di fronte alla complessità della malattia mentale.

«Nel nostro ospedale c’era un reparto di psichiatria ora chiuso» racconta Giusi Urgesi, medico di un Pronto soccorso a Bari. «Quando lavoravo lì ne vedevo tante di famiglie disperate: i loro cari erano ritenuti in grado di tornare a casa ma loro avevano paura, mi dicevano “dormiamo chiusi a chiave” perché il figlio aveva crisi di aggressività. Tragedie annunciate. Molti reparti di psichiatria hanno chiuso per i tagli alla sanità. Così ora le persone con patologie mentali vengono ricoverate in emergenza, magari con un Tso, il Trattamento sanitario obbligatorio, e dopo poco li rimandano a casa». Dove il dramma ricomincia. Alternative? «Va ripensata la legge 180» sostiene Urgesi. «Andrebbero create strutture dedicate a questi pazienti, con condizioni ben diverse dai manicomi, che erano lazzareti, ma dove stabilizzare la malattia mentale con farmaci e interventi adeguati finché il malato può essere reinserito nella sua vita quotidiana». Aggiunge Milone: «L’unica strada possibile è la collaborazione tra servizi pubblici e privati: il paziente va da uno psicologo privato una volta a settimana e da uno del servizio sanitario ogni sei mesi. Certo, il privato costa. Ora c’è il bonus psicologo ma bisogna che i politici investano di più nella psichiatria».

Al momento, nei casi estremi, si ricorre al Tso in un reparto psichiatrico (al massimo per una settimana). «Perché spesso il paziente non riconosce la sua malattia e non si fa curare. Ma c’è tutta una procedura da osservare, serve il consenso del sindaco, a volte per la sua firma si aspettano 24 o 48 ore, e la richiesta va trasmessa anche al giudice» precisa Buonaugurio. La scena di qualcuno ricoverato a forza e magari legato a un letto nelle prime fasi può essere disturbante. Ma il dibattito, in certi casi, lascia il tempo che trova. Milone (che ne ha fatto il titolo del suo bellissimo libro-memoir) racconta che immobilizzare i pazienti non è per questo un atto di «disumanità»: «Il malato va prima di tutto salvato, e legare può salvare la vita. Sarebbe come dire che il bisturi o il trapano non vanno usati. La medicina è piena di cose che “fanno male”, ma in certe situazioni bisogna aprire e intervenire. E se un chirurgo non usa mai il bisturi ma opera solo con i buchetti della laparoscopia, non è un bravo medico. E vale lo stesso per lo psichiatra».

Così come, riflette Milone, sarebbe un errore demonizzare la vecchia psichiatria: «C’è una certa retorica nel dire che i manicomi erano tutti lager, e i medici che vi lavoravano tutti sadici. Non dimentichiamo che, all’inizio, erano nati con buone intenzioni, e molte persone fuori dai manicomi sarebbero morte. Per il paziente psichiatrico la libertà può essere terapeutica rispetto alle mura esterne, ma non libera dal “persecutore interno”, la malattia. Quella che alla fine spinge al suicidio o ad atti aggressivi».

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