I senzatetto che vivono accampati tra il centro e la stazione. Le bande di giovani che la notte di Capodanno hanno aggredito sessualmente nove ragazze. E poi l’emergenza casa e le nuove povertà che non trovano risposte dalle istituzioni pubbliche. La metropoli che si vuole locomotiva d’Italia, e che viene raccontata da chi l’amministra come «città del futuro», presenta il suo volto più crudo e reale.
C’è Fabrizio che comincia la giornata con un cartone di vino da un euro. C’è Maria che si addormenta sull’autobus 91, in fondo, per non morire di freddo. C’è Doina, rumena, che ha scritto a matita nome, cognome, data di nascita su un foglio bisunto e non può perderlo perché «è la mia carta d’identità». C’è Hassan, 25 anni, arrivato con un barcone dalla Libia; gli avevano detto che Milano abbraccia tutti. La mistica dell’accoglienza. «Forse perché nei sottopassi della Stazione Centrale c’è tanto posto». Sono i volti scavati, sdentati, sfiniti, disperati di una realtà che non fa immagine e politicamente non rende, quella degli ultimi.
Gli homeless della metropoli più europea d’Italia sono ufficialmente 2.608 con il 14 per cento rappresentato da donne; in queste notti di gelo la maggior parte si rifugia in strutture di accoglienza, ma 587 rimangono per strada, ectoplasmi avvolti in coperte bucate, sdraiati quando va bene su materassi puzzolenti. Si riparano dove trovano, piazzano cartoni e igloo di tela (i più fortunati) anche sotto i portici di piazza San Babila. Sono giovani, troppo giovani per arrendersi o essere abbandonati. Risiedono tutti ufficialmente in via Giorgio Strehler, dove c’è un ufficio comunale e hanno ottenuto il documento. Ogni tanto qualcuno toglie il disturbo per sempre, in silenzio. Sono i fantasmi dimenticati nella narrazione ecosostenibile della città della gioia e del benessere.
Fra sharing mobility, quartieri carbon free, policentrismo urbanistico, piazze tattiche e serate crowdfunding con il catering da sushi bar, a Milano esistono anche degrado e disperazione ma le sinfonie smart del sindaco Giuseppe Sala non li prevedono. Funziona di più la sociologia delle fashion week. Allora diventa interessante, sulle tracce delle struggenti fotografie di Marco Ferrario che vedete in queste pagine, raccontare l’altra metropoli, quella che non abita nelle statistiche del Sole 24Ore; mettersi in viaggio fra i testimonial impresentabili e i mondi censurati della capitale immorale.
Baby gang in piazza Duomo. Le aggressioni di Capodanno sotto la Madonnina hanno aperto gli occhi a tutti, Milano è anche un luna park della violenza. Una decina di ragazze hanno denunciato gli abusi, 13 giovani uomini sono stati fermati (sei egiziani, due tunisini, cinque «italiani di seconda generazione», cioè figli di stranieri) e per gettare la palla in tribuna il sindaco ha additato «il branco, che in gran parte arriva da fuori città».
Le scene agghiaccianti hanno fatto il giro della rete. Ora si riparla di disagio delle periferie dalle quali provengono i violenti, classico tema di un’amministrazione di sinistra quando non ha soluzioni. Il centrodestra ha chiesto le dimissioni dell’assessore alla Sicurezza, Marco Granelli. Il sindaco, che ha impiegato dieci giorni a chiedere scusa alle vittime, l’assunzione di altri 500 vigili urbani. Ma neppure mille basterebbero se continuerà la politica dello struzzo: fingere di non vedere il problema. Da un anno, almeno una volta al mese, gruppi di extracomunitari si danno appuntamento in centro per regolare i conti.
Per abitudine si picchiano nella loggia dei Mercanti, a due passi dalla galleria Vittorio Emanuele, dallo struscio meneghino e dal municipio. L’estate scorsa durante una rissa fu danneggiato il monumento alla Resistenza e il presidente dell’Anpi, Roberto Cenati, tuonò: «Per combattere il degrado servono telecamere e forze dell’ordine». L’ex assessore alla Cultura Filippo Del Corno replicò con una lezione di inclusione evangelica: «Più che controlli sarebbe utile una maggiore mediazione culturale».
Fuochi in Stazione Centrale. Qui il guanto di velluto viene usato con il sottobosco di spacciatori e prostitute che esercitano le professioni en plein air. Piazza Duca d’Aosta è un luogo simbolo, Gio Ponti progettò il Pirellone «per dare il benvenuto ai lavoratori, è il buongiorno di Milano». Oggi ogni trasgressione è lecita, anche surreali accoppiamenti all’aperto documentati da filmati che circolano sul web. L’europarlamentare della Lega Silvia Sardone ha scritto con sarcasmo: «Altro che grattacieli, altro che riqualificazione, altro che Milano capitale internazionale. La città sprofonda nel degrado più totale con il silenzio complice dell’amministrazione».
Proprio sotto Natale è stato organizzato un intervento contro i più deboli, Fabrizio, Maria, Hassan e gli altri disperati senzatetto. Uno sgombero dai tunnel della stazione, con coperte e materassi finiti al macero. C’è stata una sollevazione indignata, prefetto e sindaco si sono dovuti difendere. Sala: «Avevano acceso fuochi che possono essere pericolosi, di freddo si può morire e quella era una situazione tesa a degenerare. Molti di loro non accettano di andare nei dormitori, quindi il problema è complesso». Non lo è per chi li aiuta ogni notte come i City Angels e gli operatori del Cisom, il corpo di soccorso dell’Ordine di Malta; non lo è per i volontari dell’Opera Cardinal Ferrari (l’anno scorso ha compiuto 100 anni), che mette a disposizione un dormitorio e cucina pasti a ciclo continuo per i senzatetto.
San Siro islamica. Dietro lo stadio Meazza, poco oltre il progetto della Cattedrale delle leggende dove Inter e Milan sognano di giocare derby da Champions, c’è un quartiere nel quale gli italiani (poliziotti, assistenti sociali, volontari) non entrano. Le case popolari di via Tracia e via Civitali, un tempo residenze degli operai che furono protagonisti del boom economico, oggi sono un’enclave musulmana. Qui attecchisce il fondamentalismo. Nordafricani, Rom, egiziani, marocchini, donne con il burqa, piccoli trafficanti, ricettatori con la merce in vista: è la Molenbeek di Milano.
In piazzale Selinunte il minimarket El Rais ha le insegne in arabo e all’interno un altoparlante trasmette la voce di un imam che recita il Corano. Nessuna integrazione, nessuna legge condivisa, nessuna raccolta differenziata. Anzi, l’immondizia che si accumula sui marciapiedi indica regole a sé. I pochi italiani vivono barricati in casa e lo scenario diventa preoccupante per gli altri quartieri: a Baggio, dove la giunta vuole imporre una nuova moschea, i cittadini sono in allarme. Vanity Sala sprona al multiculturalismo ma loro colgono al volo l’abissale differenza fra storytelling e realtà.
Occupazioni a raffica. Negli ultimi anni sono triplicate. Almeno dieci al giorno nei falansteri in fondo a via Padova, al Lorenteggio, al Giambellino, a Porto di Mare e nella zona di Brenta, ribattezzata «Barrio Brenta» per la massiccia presenza di latinos. Occupazioni tante da parte di clandestini, ma sgomberi pochi. La pratica non è liberal e si preferisce temporeggiare. Le case popolari sono di proprietà dell’amministrazione e dell’Aler, in carico a Regione Lombardia, ma l’assegnazione degli alloggi spetta al Comune che tende a spedire le famiglie più disagiate (quelle che non pagano affitto e bollette) all’Aler. Gli sgomberi sono diventati tecnicamente complicati durante la pandemia, con un ulteriore nodo burocratico: i minori e i disabili non possono essere mandati via senza la presenza degli assistenti sociali, che tendono a latitare.
Il tema alloggi scatena allarme sociale e violenza. A novembre è avvenuta la tempesta perfetta: il centro sociale Macao, che aveva «okkupato» dieci anni fa un immobile pubblico in viale Molise (zona Forlanini), è stato cacciato non da un’azione legale delle istituzioni ma da una banda di clandestini che aveva preso possesso delle palazzine disabitate dell’ex Ortomercato lì a fianco. Al culmine dei litigi per una zona contesa, gli extracomunitari sono entrati nel centro sociale con coltelli, bastoni e l’aria di volerli usare. La fuga guevarista è stata immediata.
Piazze tattiche. Non c’è convegno degno della Smart city per eccellenza nel quale non si parli di «riqualificazione ambientale». Consiste solo nel ribattezzare i luoghi con buffi acronimi newyorchesi da provincialismo urbanistico, come Nolo (North of Loreto) e Napa (Naviglio Pavese). Nel frattempo le periferie soffrono aggredite dal degrado, nel boschetto di Rogoredo giovani perduti continuano a morire di droga e di spaccio. E Milano che fa? Inventa soluzioni illustrate da urban planners di Helsinki o di Chicago. L’ultima si chiama «piazza tattica». Praticamente l’abbellimento di uno spazio anonimo con tre panchine, due alberelli orfani e un tavolo da ping pong per socializzare. Piazza Tirana, punto di congiunzione fra Lorenteggio e Giambellino, a tre giorni dall’intervento si presentava così: panchine divelte, aiuole distrutte e tavolo da ping pong prima usato per un barbecue etnico, poi rubato.
La gestione inutilmente fashion delle periferie aveva indotto lo stesso Pd, durante l’ultima campagna elettorale, a smarcarsi con effetto straniante dal sindaco Sala. E a chiedere con manifesti firmati «l’implementazione dei presidi notturni delle forze dell’ordine e la presenza dei vigili di quartiere». Attività importante, con un limite grottesco durante il periodo natalizio. Il cittadino che inviava ai «ghisa» una mail segnalando un problema, riceveva immediatamente una risposta automatica da un impiegato fuori stanza: «Il servizio è sospeso fino al 10 gennaio». Nessuna turnazione. Come se ladri e malfattori andassero a sciare a Zermatt.
Nella capitale immorale concentrata sull’estetismo mondialista si tende a non guardare il panorama di servizio. La Biblioteca degli alberi, il Gay Pride, i complimenti di Greta Thunberg per le piste ciclabili che finiscono nel nulla (Dagospia titolò con ferocia «Tipica fighetteria milanese») diventano il core business istituzionale. Ma i lati oscuri sono lì da vedere ogni giorno. L’ultimo è il più disarmante: la fila dei poveri che attendono un pasto davanti alle sedi della Caritas e della onlus Pane Quotidiano si allunga. Quasi 10 mila persone allineate in tanti serpentoni; quello di viale Toscana ha sullo sfondo l’avveniristico campus dell’Università Bocconi.
Ecco la sintesi, l’immagine delle due metropoli. Una che arranca abbandonata a se stessa e l’altra che corre sui monopattini. Quella della sofferenza e quella dell’apparenza. Il primo gesto della responsabile ai Servizi civici Gaia Romani (25 anni, piddina) è stato cambiare la targa sulla porta dell’ufficio. Ha voluto «assessora» invece di «assessore» e ha spiegato che «il cambiamento parte dalle piccole azioni». Quando ha avvitato la placchetta nuova ha chiamato i fotografi. Della «Vanity Milano» ha capito tutto.
