Home » Attualità » Cronaca » Colombia, la cocaina del Presidente

Colombia, la cocaina del Presidente

Colombia, la cocaina del Presidente

Gustavo Petro, da due mesi alla guida del Paese sudamericano con la maggior produzione mondiale della polvere bianca, ha fatto un’affermazione «stupefacente»: va depenalizzata, soprattutto per difendere l’ambiente. E in un attimo, decenni di sanguinosa guerra al narcotraffico verrebbero così archiviati.


La Colombia, il maggior produttore di cocaina al mondo e per decenni partner chiave nella «guerra alla droga» degli Stati Uniti, sta guidando un esperimento pionieristico a livello mondiale: la depenalizzazione della polvere bianca. Lo aveva già annunciato il quotidiano Washington Post, il 20 agosto scorso, precisando che però l’amministrazione del presidente Joe Biden si sarebbe opposta.

Ciononostante, un mese dopo, il primo presidente di sinistra della storia colombiana, l’ex guerrigliero Gustavo Petro, ha confermato il cambiamento radicale che ha in mente nel suo discorso alla 77sima Assemblea generale dell’Onu, a New York. «Una difesa appassionata della cocaina e della legalizzazione di tutte le droghe alle Nazioni Unite» ha titolato la rivista investigativa messicana Proceso.

Gran parte del discorso di Petro al Palazzo di vetro è stato incentrato nel chiedere la fine della «guerra alla droga» degli Stati Uniti, denunciando che la vera piaga del mondo di oggi sarebbe il petrolio e non la polvere bianca. Poi ha difeso la crescita e la coltivazione delle piante di coca nel suo Paese, sottolineando come gli sforzi per sradicarle starebbero, a suo avviso, distruggendo l’Amazzonia colombiana. «Là nelle giungle, viene rilasciato ossigeno e assorbita la CO2 atmosferica. Una di quelle piante che assorbe anidride carbonica, tra milioni di specie, è una delle più perseguitate sulla terra» ha dichiarato testualmente Petro. «A ogni costo si cerca la distruzione di una pianta amazzonica, la pianta della coca, la pianta sacra degli Incas. Paradossale che la foresta che cerca di essere salvata venga così allo stesso tempo distrutta».

Poi, preso dal sacro fuoco della legalizzazione, ha continuato: «Per eliminare la pianta della coca si rilasciano veleni, glifosato, in modo massiccio che poi finiscono nelle nostre acque. Arrestano i coltivatori e li imprigionano per aver posseduto un po’ di foglie di coca. “Distruggi la pianta che uccide”, ci gridano da Nord (un chiaro riferimento agli Stati Uniti, ndr), ma è solo una pianta in più mentre in milioni muoiono quando si scatena il fuoco nella giungla».

Petro ha quindi denunciato il petrolio come più dannoso della cocaina. «Cos’è più velenoso per l’umanità?» ha chiesto retoricamente. «L’opinione di chi detiene il potere ci ha imposto che la cocaina sia il veleno da combattere, anche se provoca solo morti minime per overdose. Invece, carbone e petrolio vanno protetti, anche se il loro uso oggi può estinguere tutta l’umanità» ha chiosato, aggiungendo francescanamente che «non c’è pace totale senza giustizia sociale, economica e ambientale. Noi siamo in guerra con il pianeta e senza pace con il pianeta, non ci sarà pace tra le nazioni. Senza giustizia sociale, non ci sarà pace sociale».

Al di là del populismo «green», Petro dimentica che sono state le piantagioni di coca a provocare la deforestazione di centinaia di migliaia di ettari di foreste e giungle, finge di non sapere che i coltivatori di coca, i cocaleros, stanno invadendo i parchi nazionali e che sono i precursori chimici utilizzati per la produzione di cocaina ad avvelenare i fiumi. Solo a Putumayo e a Caquetá, due dei 32 dipartimenti in cui è suddivisa la Colombia, si registrano 22.045 ettari di foreste abbattute e riconvertite a coca, secondo l’ultimo rapporto del Simci, il Sistema integrato di monitoraggio delle colture illegali di Bogotá.

Risibile anche quanto sostenuto dall’ex consigliere politico di Hugo Chávez, che mente quando sostiene che è l’uso di glifosato usato per distruggere le piantagioni di coca a minacciare l’Amazzonia e l’ambiente. Lo scorso anno sono stati importati in Colombia 13 milioni di litri di questo erbicida, di cui solo 480 mila, ovvero il 3,7 per cento, utilizzati per estirpare le foglie di coca. Tutto il resto è stato impiegato per coltivazioni legali. Certo, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) ha classificato il glifosato nella Lista 2A come «probabilmente cancerogeno per l’uomo», e che per questo motivo, in virtù del «principio di precauzione» sarebbe necessario vietarlo, come del resto ha deciso la Corte costituzionale colombiana impedendo l’irrorazione aerea di glifosato contro la coca sotto la presidenza di Manuel Santos.

Il problema è che nella stessa Lista 2A sono inseriti anche i cibi fritti, la carne rossa, il mate e il caffè. Definire ipocrita la battaglia contro il glifosato della sinistra internazionale, di cui Petro è solo l’ultimo esponente assurto a «beatificazione», è dunque il minimo a detta dell’ex viceministro degli Interni di Álvaro Uribe, Rafael Nieto Loaiza. Nel «mondo parallelo» di Petro, a distruggere l’Amazzonia sarebbe dunque la lotta contro la produzione di coca (mentre è vero il contrario) e i contadini non avrebbero altro che droga da coltivare. Un’altra balla. I campesinos colombiani hanno iniziato a seminare la coca solo negli anni Ottanta, quando i narcos ne promossero la coltivazione, mentre oggi, grazie all’innovazione tecnologica, meno del 3 per cento degli 11 milioni di abitanti delle campagne colombiane fa il cocalero. Petro sorvola sulle centinaia di migliaia di morti che la cocaina ha causato con la violenza connessa alla sua produzione nelle aree rurali e al consumo globale, tralasciando il peggio: ovvero il terrorismo e la violenza politica che si alimentano dei suoi proventi criminali.

Dulcis in fundo, chi oggi comanda a Bogotá si unisce a coloro che sostengono come la lotta al narcotraffico sia fallita e quindi si dovrebbe semplicemente legalizzare la cocaina. L’ipotesi si basa su una premessa scorretta e su dati falsi. È come concludere che, poiché continuano omicidi e furti, omicidio e rapina dovrebbero essere legalizzati. E non è nemmeno vero che la battaglia contro la cocaina sia stata persa. Vediamo alcuni numeri. Il primo rapporto del Sinmci 2001 stimava in 137 mila gli ettari coltivati a coca in Colombia, cifra ridotta di un terzo nel 2013, con 48 mila ettari da cui furono prodotte circa 290 tonnellate di droga. I dati dicono che dal 2014, anno dell’inizio dei dialoghi di «pace dell’Avana» con le organizzazione di guerriglieri Farc, coltivazione e produzione di cocaina sono risalite alle stelle in Colombia. Oggi, infatti, la polvere bianca a Bogotá è cresciuta poco meno di quattro volte rispetto a otto anni fa: si stima che se ne raffinino circa mille tonnellate all’anno.

Non è la guerra alle sostanze ad aver fallito, ma il «nuovo approccio storico» che si è rivelato un disastro. La conseguenza di tutto ciò è la realizzazione del sogno che fu di Pablo Escobar, il boss del cartello di Medellín, «ovvero la legalizzazione della cocaina di qui a 20 anni». Lui lo disse a una giornalista poco prima di essere ucciso, nel 1993. Si era sbagliato di un decennio: ma adesso, grazie a Petro, il sogno del narcotrafficante sta per diventare una triste, concreta realtà.

© Riproduzione Riservata