In città ormai il 20% degli abitanti è musulmano, il livello più alto del Regno Unito.
Alla stazioncina ferroviaria di Bradford, i respingenti dei binari sono abbelliti da aiuole. Lungo le uniche due pensiline, sono appesi vasi di fiori. La popolosa città dello Yorkshire accoglie il visitatore come una classica cartolina dell’Inghilterra di provincia. Ma basta poco per spezzare l’idillio britannico: lungo la rampa sono dipinte le sagome dei monumenti che hanno segnato la storia della città. Accanto al disegno della cattedrale tardo-romanica del 1458 è stata affiancata quello della Central Masjid, moschea eretta nel 1999, in ossequio della società multietnica e multireligiosa.
La maestosa Civic Hall e gli eleganti palazzi vittoriani nella pietra giallo scuro tipica dell’epoca ricordano il passato di Bradford che però ormai è un mondo svanito, anzi sostituito da un altro, straniero e incompatibile. Benvenuti a Pakistanlandia, nel profondo nord dell’Inghilterra. Dei 539.000 abitanti di Bradford, il 20% è pachistano: è la più alta di tutto il Paese. Nei libri di storia si legge che la città fu una delle culle della Rivoluzione industriale e un prospero centro tessile; oggi con 220 ristoranti di curry, l’unico motivo di celebrità per la città è di essere la capitale del curry, un piatto nato a 5.000 chilometri di distanza, del Regno Unito. Anche le aiuole spartitraffico ben curate, parlano asiatico: un cartello informa che sono gentilmente sponsorizzate da Akbar’s, «The King of Curry».
A inizio anno mentre sul Paese infuriava la bufera del divorzio dalla corona inglese del principe Harry e della moglie Meghan, il fratello William, futuro sovrano della Gran Bretagna, e Kate hanno fatto un bagno di folla al ristorante MyLahore. Il locale si autoproclama British Asian, che è il vocabolo politically correct per immigrati (o figli e nitidi immigrati) pachistani e islamici. Niente di male se non fosse che di britannico al MyLahore non c’è nulla: dal cibo ai clienti al personale, non c’è nessun inglese. Gli arredi finto-trendy per strizzare l’occhio agli occidentali. Alle pareti, le locandine. C’è Django con Franco Nero. Un film italiano, dentro un locale pachistano che però è arredato come se fosse europeo e si proclama britannico.
La visita non ha fatto grande effetto: dopo mesi, nel locale non c’è alcuna traccia della presenza reale che in altri luoghi avrebbe fatto notizia per generazioni. A pranzo sono tutti asiatici: «Qui negli anni Settanta c’era qualche pachistano. Oggi si fa fatica a trovare un britannico di pelle bianca» osserva un passante, lui inglese fino al midollo. Il futuro erede al trono della Gran Bretagna, dopo il padre Carlo, ha elogiato Bradford come «esempio di integrazione», ma forse dopo pranzo è stato subito caricato sulla sua auto blindata. Se avesse passeggiato attorno al MyLahore, avrebbe visto che regnano desolazione e degrado: vetrine chiuse, negozi sprangati, sporcizia ed edifici abbandonati.
Ma non è periferia, è pieno centro: ai giardinetti decine di giovani asiatici stanno bighellonando. Oltre al curry, Bradford ha un altro primato poco invidiabile, quello della disoccupazione. La città conta 91.000 senza lavoro, uno su tre nella fascia dai 14 ai 65 anni, e il tasso di occupazione è del 67%, il più basso del Regno Unito (tra le grandi città). La carenza occupazionale va di pari passo con la de-industrializzazione: la manifattura, che era il perno della città, è in continuo calo, oggi è appena l’11% dell’economia locale.
L’invasione pachistana è iniziata nel Dopoguerra: negli anni Cinquanta si contavano 10.000 immigrati. L’ultimo censimento del Regina, nel 2011, ne ha registrati 1,1 milioni. E la comunità più popolosa è appunto a Bradford, dove nonostante non ci sia lavoro i nuovi arrivati continuano a far venire spose e parenti dai loro Paesi, rivela uno studio del governo. Non è la prima volta visto che, a fine Ottocento, con l’industria tessile giunsero in massa i tedeschi. Hanno lasciato pure un segno: il quartiere Little Germany, ma erano europei e cristiani.
La seconda ondata di immigrazione fornisce solo moderne ed esteticamente orribili moschee mentre stravolge l’identità e le radici di un popolo. E nel 2001 per tre giorni Bradford fu sconvolto da rivolte razziali, con centinaia di arresti. I casi di cronaca nera abbondano: da 14enni che accoltellano gli insegnati a scuola a foreign fighters non manca nulla, tanto che oggi la città è la più insicura dell’Inghilterra. L’episodio più eclatante, legato sempre al fondamentalismo religioso, risale al 2015: tre sorelline di Bradford, che erano andate in Siria dai parenti, furono rapite e trattenute nel Paese.
Pochi giorni fa le autorità hanno dovuto reintrodurre il lockdown perché per la festa dell’Eid tutti si sono radunati nelle case e c’è stato un picco nei contagi. Eid, abbreviazione che suona anglofona ma che sta per Eid al-Adha, la Festa del Sacrificio, cruciale celebrazione musulmana. Il calendario inglese è ormai scandito non più dalle feste cristiane o occidentali ma dai riti islamici.
Il deputato Tory Craig Whittaker ha esplicitamente accusato le minoranze etniche, citando proprio il caso di Bradford: «Quello che vedo nel mio collegio è che ci sono comunità che non stanno prendendo sul serio la pandemia». Gli sono piovute addosso una marea di critiche e accuse di razzismo.
Nonostante la rassicurante retorica del principe di casa Windsor, a Bradford non c’è nessuna integrazione, ma solo una lenta e inesorabile sostituzione etnica e culturale, che porta degrado e problemi. Ci sono due città che convivono sempre peggio e dove quella straniera ha ormai preso il sopravvento su quella originaria. Il soprannome che la minoranza britannica le ha affibbiato è «Mill & Mosque Town», fabbrica e moschea. Le statistiche calcolano che ormai i britannici bianchi siano meno della metà, il 46%.
Ma siccome le percentuali sono sempre figlie di una media e le medie sono sempre quelle di Trilussa, il divario etnico effettivo è ancor più drammatico: interi quartieri sono ormai monoetnici, nel senso di pachistani. Dalla cima di Hastings Avenue si gode un panorama affascinante sulla città: le tipiche case popolari a schiera, costruite durante la prima rivoluzione industriale per operai e proletari, disegnano dei serpenti di comignoli e mattoni lungo i pendii della collina.
Ma la «working class» inglese oggi è scomparsa: nei portoni entrano tutte donne col velo, o interamente coperte da burqa. I giardinetti delle case, storico vanto delle famiglia inglesi di qualsiasi ceto sociale, sono incolti e abbandonati. I segni della islamizzazione si vedono ovunque: l’immondizia agli angoli delle strade, le auto parcheggiate sopra i marciapiedi. Abitudini tipiche del Medio Oriente, non della ben più ordinata cultura anglosassone.
Al posto delle bisunte ma tradizionali rivendite di Fish&Chips o dei pub (l’alcol è vietato dal Corano) è tutto un pullulare di centri culturali, trust & wealth center, insurance center. Si tratta di moschee mascherate: «Preghiere cinque volte al giorno» dice il cartello. Ed è l’unica cosa che si capisce. Nel resto della via i cartelli sono incomprensibili, tutti scritti in arabo o in urdu. Il solo negozio di generi alimentari della zona si chiama Awami Foods. Ogni rivendita espone però in vetrina il cartello «halal».
Bancarelle di ambulanti vendono tuniche appese, come in un suk del Cairo. Sui marciapiedi si vedono soprattutto uomini con le tuniche e mantelli come i beduini del deserto, sfoggiano barbette a punta. Emanano un’arroganza sottile: nessuno parla inglese. In questo quartiere il 35% delle persone non lo utilizza come lingua madre e, addirittura il 15%, non è semplicemente in grado di padroneggiarlo. Più che una comunità di immigrati, Bradford sta diventando un corpo estraneo del Paese. A quando il rigetto?