Non fanno notizia come il Covid, ma i microbi resistenti agli antibiotici sono sempre di più, in tutto il mondo. Colpa delle industrie farmaceutiche che non investono in questo settore, di troppe prescrizioni inutili, e anche (spesso) dei nostri comportamenti.
E’ l’eterna lotta tra la natura e la scienza, e si combatte ogni giorno nel nostro organismo, quando per necessità dobbiamo assumere antibiotici. Se questa guerra alla fine la vince «il nemico», cioè i batteri, perché i farmaci non fanno più effetto, allora sono guai: quelli ai quali è andata incontro anche la cantante Madonna, per citare un nome famoso, vittima di un’infezione antibiotico-resistente da «super bugs» che lo scorso luglio l’ha mandata in terapia intensiva. Al di là del caso della star, vittime dell’antibiotico-resistenza siamo tutti noi, potenzialmente, consumatori abituali (e spesso abusatori) di anti-microbici. Che oggi hanno perso molto della loro potenza. I numeri sono eloquenti: secondo lo studio «Global Research on Antimicrobial Resistance» pubblicato nel 2022 su Lancet, nel 2019 i decessi legati a batteri che sopravvivono alle terapie sono stati 1,2 milioni in tutto il mondo, più di quelli per malaria e Aids messi insieme. E in Italia siamo messi particolarmente male: secondo gli ultimi dati dell’European Centre for Disease Prevention and Control, 11 mila dei 33 mila morti che l’antibiotico resistenza causa ogni anno in Europa, avvengono proprio nel nostro Paese.
Ma come siamo arrivati a questo punto? Com’è possibile che la scienza sia praticamente ferma in un settore così importante? Di sicuro, c’entrano – e parecchio – i soldi e la scarsa volontà di Big Pharma nel portare avanti filoni di ricerca non molto redditizi: gli ultimi antibiotici scoperti e approvati sono stati, nel 1985, i carbapenemi: da allora, nulla di veramente nuovo: «Ovviamente la legge di mercato ha un suo peso» spiega Fabrizio Pregliasco, direttore Sanitario dell’IRCCS Ospedale Galeazzi – Sant’Ambrogio e autore (con la giornalista Paola Arosio) del saggio I superbatteri. Una minaccia da combattere (appena uscito per Cortina). «Se è vero che negli anni tra il 1950 e il 1970 gli antibiotici sono stati molto redditizi per le case farmaceutiche, in seguito hanno smesso del tutto di esserlo. Sia perché il trattamento dura pochi giorni, rispetto per esempio ai medicinali oncologici o a quelli per diabete e colesterolo, sia per il prezzo: l’antibiotico costa pochi euro, la terapia contro il cancro può costarne migliaia». Inoltre condurre i test clinici ha per le imprese un costo assai alto: per ogni paziente in studio di Fase 3 serve un investimento di circa 90 mila euro. E il ritorno economico, in questo caso, non c’è. Le conferme arrivano da più parti: secondo il Pew Research Center di Washington, le aziende farmaceutiche tra il 2014 e il 2016 hanno guadagnato oltre 7 miliardi di euro dai medicinali contro i tumori, e hanno perso 90 milioni dalla produzione di antibiotici. Ecco perché gli antimicrobici sono stati definiti dal New Scientist «l’antitesi di un bestseller».
Se il cuore dell’antibiotico resistenza sono gli Stati dell’Asia meridionale (India in primis) e dell’Africa subsahariana, il problema non affligge solo Paesi borderline per quanto riguarda la prevenzione sanitaria e le condizioni di vita. Anche in Italia, per fare un esempio, i bambini sono stati duramente colpiti dal «killer delle culle: «Il citrobacter, aggressivo e pericoloso» racconta Pregliasco «appare in Italia nel 2018, nella terapia intensiva neonatale dell’ospedale Borgo Trento di Verona. Si porta via il piccolo Leonardo, di tre settimane, e poi Nina, e poi Tommaso e Alice. Alla fine ci furono quattro vittime, e altri nove bambini riportarono lesioni permanenti. Il batterio era annidato nei rubinetti dell’ospedale. Questo è ciò che l’antibiotico-resistenza può fare ai nostri piccoli». Non solo a loro: le infezioni antibiotico-resistenti, assieme alle pericolosissime sepsi, riempiono i reparti di medicina interna: «Dobbiamo essere molto decisi nell’affermare che stiamo andando verso la catastrofe» sostiene Salvatore Corrao, direttore del reparto di Medicina interna dell’ospedale Civico di Palermo. «Senza un approccio multidisciplinare, che coinvolga gli allevamenti – dove gli antibiotici sono stati usati in passato in modo massivo – i veterinari e i medici del territorio, non riusciremo a venire a capo del problema. Nei nostri reparti arrivano moltissimi pazienti con sepsi, o con polmoniti, infezioni urinarie o dei tessuti molli resistenti ormai a tutti agli antibiotici. Patologie estremamente gravi che possono portare alla terapia intensiva, allo shock settico e spesso alla morte. Non c’è un batterio che all’interno dell’ospedale non possa darci brutte sorprese».
Nemmeno i più «banali»: se è vero che l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, ha stilato una classifica dei 12 più pericolosi, tra i quali l’Acinetobacter, lo Pseudomonas, lo Stafilococco, responsabili di diversi tipi di infezioni (come polmoniti e setticemie) è vero che la resistenza può nascondersi ovunque. A quel punto, se un primo antibiotico non funziona, e poi magari nemmeno il secondo, ecco che il problema diventa enorme perché alla fine si arriva all’ultima scelta: i carbapenemi, anti microbici con una struttura molto simile alla penicillina. «Questi però» sottolinea Corrao «possono essere usati solo avendo a disposizione laboratori di microbiologia avanzati, per sapere quali enzimi permettono al batterio di diventare resistente, così da combatterli con le armi giuste». Ma noi pazienti, non possiamo fare proprio nulla per contrastare quest’emergenza che, sempre secondo l’Oms, porterà a 10 milioni di morti l’anno entro il 2050? Certo che sì, insieme ai medici di famiglia, spesso alle prese con troppa cautela o con le pressioni di pazienti apprensivi: «Secondo uno studio» fa notare Pregliasco «più del 30 per cento delle prescrizioni del medico di base, di fronte a una patologia respiratoria iniziale, riguardavano un antibiotico, con un eccesso di prudenza, per evitare un peggioramento o una sovrainfezione batterica: solo che magari il paziente non sarebbe comunque peggiorato, e l’uso – inutile – del farmaco non faceva altro che favorire l’antibiotico-resistenza. Ora per fortuna c’è più consapevolezza da parte dei medici».
E poi ci siamo noi pazienti, che se non usciamo dall’ambulatorio del dottore con la ricetta dell’antibatterico non siamo contenti, anche se magari abbiamo solo il mal di gola: salvo poi non finire la cura, perché dopo qualche giorno stiamo già meglio. Anche questo fa parte del problema: «Concludere tutta la terapia» avverte Pregliasco «è fondamentale. Quello che però spesso succede è che il farmaco riduce la replicazione batterica, il paziente si sente meglio e ha un’immediata riduzione dei sintomi. Segno che la cura funziona; ma se non la si finisce, i batteri – anche se indeboliti dal trattamento – rimangono lì, con una concentrazione di antibiotico che man mano si riduce, fino ad azzerarsi. Così si selezionano i batteri resistenti». E a quel punto, il danno è fatto.
Nel mondo, nonostante tutto, c’è ancora qualcuno che cerca nuove armi, in modo anche avventuroso: nelle profondità dei mari, nei deserti – come quello di Atacama, in Cile -, nelle giungle, esplorando habitat dove potrebbero nascondersi molecole potenti: ma la ricerca è difficile, perché se poi gli studi in laboratorio, per ogni molecola, non danno i risultati sperati, occorre ricominciare tutto con spese altissime. C’è poi stato, nel 2020, anche un sussulto etico di una ventina di case biofarmaceutiche, che hanno sviluppato il fondo Amr Action Fund per lo sviluppo di nuovi antibiotici entro il 2030; e l’iniziativa del Regno Unito di avviare un meccanismo per cui il sistema sanitario nazionale paga le aziende a prescindere dal numero di dosi di antibiotico utilizzate, per separare i profitti dall’ammontare delle vendite. Mentre nei laboratori di mezzo mondo si cercano avveniristiche armi, la prossima volta che avremo febbre e mal di gola, non insistiamo per farci dare l’antibiotico. E se invece ne abbiamo davvero bisogno, non rimettiamolo nella scatola dopo soli tre giorni, per poi riprenderlo un po’ a caso al primo colpo di tosse.