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Il peso dell’inflazione d’autunno

Il peso dell’inflazione d’autunno

A spingere il carovita in America e in Europa è il rimbalzo delle economie che si scontra con le difficoltà nella fornitura di materie prime a livello mondiale, in seguito all’emergenza Covid. In Italia l’aumento si attesta ancora intorno al 2 per cento, ma nei prossimi mesi è possibile un’accelerazione dovuta al boom delle bollette di gas e luce che si ripercuotono anche sui prezzi al consumo dei prodotti.


Immaginate di voler acquistare un’auto che costa circa 20 mila euro. Siete indecisi, aspettate un po’ troppo e dopo un anno il prezzo di quella vettura è salito a 24 mila euro. Non solo: tutti i listini sono rincarati più o meno della stessa misura. Una cena al ristorante, una fetta di carne, una bottiglia di vino, una camicia costano il 20 per cento in più. E pure i salari aumentano per star dietro, a fatica, alla corsa dei prezzi. Ma lavoratori dipendenti e pensionati vedono il loro potere d’acquisto ridursi di anno in anno. E diventano più poveri. Così si vive quando l’inflazione rialza la testa. L’Italia ha sperimentato un carovita così elevato dal 1974 al 1983, con l’indice dei prezzi al consumo che aveva superato mediamente il 15 per cento, sfiorando aumenti del 20 per cento. Poi l’abbandono della lira e l’avvento della moneta unica europea ci hanno permesso di rinchiudere in gabbia il demone dell’inflazione: oggi in Italia i prezzi crescono meno del 2 per cento e lo scorso anno sono addirittura diminuiti. Una tendenza che riguarda tutte le economie avanzate: globalizzazione, innovazione tecnologica, crescita economica più lenta, interventi delle banche centrali per tenere bassi i tassi di interesse, sono tutti fattori che hanno contribuito a frenare il costo della vita.

Fino a quest’anno. Perché da qualche mese l’inflazione torna a far paura. E c’è la possibilità che in futuro dovremo convivere con un carovita più alto: non ai livelli eccezionali del 20 per cento all’anno, ma da due a tre volte il tasso cui ci siamo abituati da tempo. I primi segnali arrivano dagli Stati Uniti, dove i prezzi al consumo sono aumentati in luglio del 5,4 per cento. Il timore di una ripartenza dell’inflazione statunitense si è fatto tanto forte che gli americani considerano il carovita il problema numero uno: in un sondaggio della Hill-Harris di inizio agosto, il 31 per cento degli elettori ha indicato l’inflazione come la principale fonte di preoccupazione quando pensano al futuro dell’economia, seguita dal debito pubblico e dalla disoccupazione. Donald Trump ne ha subito approfittato, prendendo di mira il presidente Joe Biden e accusandolo di voler ripetere gli errori di Jimmy Carter, alla guida del Paese dal 1977 al 1981, quando l’inflazione era oltre il 10 per cento.

A spingere all’insù i prezzi negli Usa e in Europa è il rimbalzo delle economie che si scontra con le strozzature create nella fornitura di materie prime a livello mondiale in seguito all’emergenza Covid. Secondo gli analisti di Euromobiliare, la ripresa della domanda globale, dovuta alla graduale riapertura delle economie dopo i lockdown, ha fatto impennare le quotazioni di molte materie prime, dall’acciaio al petrolio, dai prodotti alimentari al legno: i fornitori di commodity non hanno potuto soddisfare gli ingenti ordinativi dei clienti poiché i volumi sono molto al di sopra della media non soltanto degli ultimi mesi di pandemia ma anche rispetto ai livelli pre-pandemia. I noli di navi per il trasporto di merci sono cresciuti a livelli record. In più le tensioni con la Cina stanno spingendo le grandi multinazionali a ristrutturare le catene di approvvigionamento che richiedono però tempo prima di iniziare a funzionare.

Il risultato è che l’inflazione dilaga: in Germania è salita in luglio al 3,1 per cento su base annua mentre nella zona euro, secondo le stime Eurostat del 30 luglio, è aumentata al 2,2 per cento, ben oltre le attese degli analisti (2 per cento). Anche in Italia i prezzi al consumo sono cresciuti più del previsto, all’1,9 per cento: «La forte accelerazione dell’inflazione a luglio» ha commentato l’Istat «è di nuovo dovuta ai prezzi dei beni energetici, in particolare di quelli regolamentati, che registrano così la crescita più alta dal 1996, ossia da quando è disponibile la serie storica degli indici dei prezzi al consumo di questo aggregato».

I primi morsi del carovita ai portafogli dei consumatori arrivano proprio dall’energia e in particolare dal metano. Al borsino italiano Psv (Punto di scambio virtuale) il prezzo del gas è schizzato a 45-46 euro per mille chilowattora, valori più che raddoppiati rispetto ai 20 euro della scorsa primavera. L’impennata sarebbe dovuta al boom di domanda proveniente dall’Asia a cui si aggiunge una riduzione dell’estrazione di metano dai giacimenti siberiani. Ma pesa anche il crescente costo dei permessi per emettere anidride carbonica, che fanno aumentare i costi della produzione di energia in Europa. Risultato? Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, prevede che dal 1°ottobre, quando scatterà l’adeguamento trimestrale delle bollette, ci sarà un altro forte rincaro delle tariffe, dell’ordine del 15 per cento, in linea con quello dello scorso 1° luglio.

Alla stangata del metano e dell’elettricità si aggiungeranno altri incrementi trascinati dai carburanti, mentre per le auto, complice la difficoltà di approvvigionarsi di microchip e gli aumenti delle materie prime, ci si aspetta un ritocco all’insù del listini fino al 5 per cento. La ripresa dell’economia si riflette anche sui prezzi delle case: nel primo trimestre dell’anno nei Paesi Ocse il costo degli immobili è salito del 9,4 per cento, il massimo da 30 anni. A Milano i prezzi di vendita, nei primi sei mesi del 2021, hanno segnato in alcuni quartieri una crescita fino al 6 per cento.

Una situazione che danneggia i consumatori e non piace agli investitori, incerti sul da farsi. Le ultime indicazioni provenienti da Jerome Powell e Christine Largade, presidenti rispettivamente della Federal reserve americana e della Banca centrale europea, hanno alimentato i timori sulla ripresa del carovita: le due banche centrali infatti hanno deciso di abbandonare l’obiettivo rigido del 2 per cento di inflazione accettando incrementi più sostanziosi. E poi all’orizzonte c’è la diminuzione degli acquisti di titoli da parte della Fed e della Bce, il cosiddetto «tapering», che dovrebbe ridurre le liquidità in circolazione mentre l’economia torna a crescere normalmente. Un passaggio delicato che può alimentare l’inflazione. Nella riunione del 27-28 luglio è emerso che i funzionari della Fed si aspettavano un aumento temporaneo dell’inflazione poiché l’economia fatica a fornire beni e servizi sufficienti per tenere il passo con la domanda, ma lo scatto dei prezzi è stato più forte e più ampio di quanto previsto.

Molti analisti ed economisti sono convinti però che il rialzo dei prezzi sia temporaneo. La crescita economica americana sta già rallentando, le quotazioni delle materie prime si stanno raffreddando, il petrolio frena la sua corsa. Spiega Fabrizio Quirighetti, analista della società di investimenti Decalia: «Gli investitori temevano l’inflazione e il tapering qualche mese fa, ora le preoccupazioni si sono spostate su un brusco rallentamento economico. La verità è probabilmente nel mezzo: un mix favorevole di crescita positiva, anche se un po’ più debole negli Stati Uniti e in Cina, inflazione complessiva contenuta e politiche monetarie (e fiscali) ancora accomodanti. In questo contesto, l’attuale rallentamento della domanda dei consumatori statunitensi, da livelli stratosferici, potrebbe essere visto come una benedizione perché probabilmente ritarderà un brusco inasprimento delle politiche economiche statunitensi nel breve termine».

E Fedele De Novellis, economista di Ref Ricerche, non vede per l’Italia una crescita talmente forte del Pil da produrre molta inflazione. Infine, le innovazioni tecnologiche, gli acquisti online, l’invecchiamento della popolazione sono tutti fattori che giocano contro l’aumento dei beni di consumo.

Ma ci sono invece molte ragioni per temere che i prezzi tornino stabilmente a salire a ritmi più veloci, cioè che da temporanea un’inflazione più elevata diventi strutturale. Intanto, a causa delle gigantesche spese sostenute dai vari Paesi per combattere la pandemia il debito pubblico è cresciuto, e per ridurlo una delle strade che le banche centrali potrebbero seguire è proprio quella di tenere un po’ più alta l’inflazione. Poi c’è la transizione energetica e l’elettrificazione, che nei prossimi anni faranno crescere i costi a carico delle imprese le quali a loro volta dovranno scaricare sui consumatori i rincari.

Un altro fenomeno che terrà acceso il fuoco sotto l’inflazione è la de-globalizzazione: l’Europa e gli Stati Uniti riprenderanno a produrre in casa quello che avevano delocalizzato in Asia, ma lo dovranno fare spendendo di più. Ci saranno anche i dazi, per proteggere l’Europa dalla concorrenza di prodotti realizzati a costi più bassi ma inquinando di più. E probabilmente anche i salari torneranno a crescere.

Più in generale la spinta inflattiva potrebbe generata da un grande cambiamento economico-culturale. Lo spiega David Folkerts-Landau, capo economista della Deutsche Bank, che da bravo teutonico è terrorizzato dall’aumento dei prezzi. «Non è esagerato dire che ci stiamo allontanando dal neoliberismo e che i giorni delle politiche neo-liberali iniziate nell’era Reagan stanno chiaramente svanendo nello specchietto retrovisore» scrive l’economista.

«La manifestazione più immediata del cambiamento nella politica macro è che la paura dell’inflazione e dei livelli crescenti di debito pubblico, che ha plasmato una generazione di politici, sta regredendo. Al suo posto c’è la prospettiva che la politica economica dovrebbe ora concentrarsi su obiettivi sociali più ampi». Aggiunge Folkerts-Landau: «Una crescita esplosiva del debito finanziata in gran parte dalle banche centrali porterà probabilmente a una maggiore inflazione. Ci preoccupiamo che le dolorose lezioni di un passato inflazionistico siano ignorate dai banchieri centrali». Lo spettro della Repubblica di Weimar, quando l’inflazione in Germania superò il 600 per cento dopo la Prima guerra mondiale, fa ancora paura.

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