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Expo 2030 e oltre: così Riad ha battuto Roma

Expo 2030 e oltre: così Riad ha battuto Roma

Dalla recente gara per l’evento del 2030 la capitale dell’Arabia Saudita poteva soltanto uscire vincitrice. Merito di una strategia di alternative tecnologiche e scelte produttive per superare l’economia del petrolio. Ma anche di liaison internazionali costruite soltanto in nome del business.


Qualche osservatore, in modo più malevolo che realista, ha attribuito la vittoria di Riad su Roma per l’Expo2030 alla potenza economica dell’Arabia, che avrebbe convinto a suon di «petrodollari» la giuria. Ma analizzando la realtà del Regno saudita, al di là dei pregiudizi, è facile rendersi conto che per la capitale italiana non c’era possibilità di competizione. Il protagonismo economico della penisola arabica è evidente. E non è solo per le risorse fossili. Riad da tempo sta facendo shopping delle migliori menti di ogni settore, per eccellere nelle nuove tecnologie a cominciare dalle fonti di energia alternative. L’obiettivo è scrollarsi di dosso lo stigma di potenza dell’«oro sporco», il petrolio, che per l’Occidente green è il nemico numero uno. Una ripulitura dell’immagine che passa attraverso la costruzione di città avveniristiche ed ecosostenibili, quanto finte, centri di ricerca all’avanguardia e progetti turistici spettacolari.

Naturalmente Riad non ha alcuna intenzione di rinunciare a una fonte energetica così redditizia ma coltiva la presunzione di sedersi al tavolo dei grandi della Terra per decidere le strategie sul clima e fare anche qui da padrone. L’esito della recente Cop28 di Dubai, la conferenza mondiale sul clima, è emblematico. Nel testo finale si parla di «transitare fuori dai combustibili fossili» ma non di eliminazione, di phase out come chiesto da 127 Paesi su 198 (compresa l’Ue). Insomma una forma forte ma un contenuto debole. Un risultato di mediazione che gli Emirati Arabi Uniti hanno voluto intestarsi. Un modo per essere protagonisti nei consessi sulla transizione ecologica ma con un occhio allo status quo. Tant’è che si lascia un margine di manovra a singoli Paesi, come la Cina, per raggiungere il picco delle emissioni più tardi del target del 2025.

In questa direzione di protagonismo va la politica del principe ereditario di Riad, Mohammad bin Salman, che punta a ridare al Regno una verginità internazionale (anche dopo l’omicidio, approvato dallo Stato saudita, del giornalista Jamal Khashoggi, nel 2018). Si veda, per esempio, la voglia di leadership nel calcio. Prima l’ingaggio di un campione come Cristiano Ronaldo, poi la sponsorizzazione della Superlega di calcio asiatica e di quella africana. In prospettiva, i Mondiali del 2030, oltre a un’edizione delle Olimpiadi invernali. Ma il calcio è solo un passaggio in una tattica a tutto campo. Riad vuole dire la sua nei vari settori tecnologici. Ecco quindi la Future investment initiative (Fii), ribattezzata la «Davos nel deserto» che, arrivata alla settima edizione nell’ottobre scorso, ha affrontato i temi quali il cambiamento climatico, l’intelligenza artificiale, la biotecnologia, la robotica, la sanità d’avanguardia e ha visto la partecipazione di leader mondiali, grandi aziende, investitori.

Mohammed bin Salman ha battezzato la sua «rivoluzione» come Vision 2030, il programma globale con cui mostra di credere alla transizione ecologica, dichiarando di voler ridurre la dipendenza dal petrolio e diversificare l’economia del regno. Tra i progetti avviati ci sono 4 aeroporti, 7 desalinizzatori, 6 impianti di trattamento di acque reflue, 10 bacini idrici, 4 autostrade, un sistema di trasporti pubblici per la città santa della Mecca, fino al colossale Neom, la città del futuro in costruzione nel deserto. Riad non bada a spese, rilanciata com’è dai lauti guadagni ottenuti grazie ai picchi dei prezzi della risorsa petrolifera. Il programma prevede partenariati pubblico-privati con investimenti esteri per 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2030. Ma questi finora sono arrivati con il contagocce (solo 3,8 miliardi di dollari nella prima metà del 2023), segno che forse aleggia scetticismo sull’operazione. Per elevare il profilo politico del suo Paese, Bin Salman ha aperto il dialogo anche a Stati tradizionalmente nemici, come Iran e Israele, ha ricucito il rapporto con gli Stati Uniti di Joe Biden e ha stretto la mano al presidente russo Vladimir Putin, disponibilità ad ascoltare le richieste della Russia (i due Paesi guidano l’Opec+, utile a Mosca e ai principali produttori di petrolio per fissare il prezzo del greggio, che tengono alto).

E non si dimentichino, fatte le dovute proporzioni, i rapporti con l’ex premier italiano Matteo Renzi, allettato dal miraggio del business facile. Nella sua offensiva politico-economica Bin Salman punta a diventare il regista della stabilizzazione del Medio Oriente, anche se l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso ha complicato le cose. Il conflitto non ha però interrotto gli ambiziosi piani urbanistici, a partire appunto da Neom, la megalopoli che dovrebbe essere costruita tra il deserto e il Golfo di Aqaba e che per sostenersi dovrebbe utilizzare solo energia solare ed eolica. Nelle intenzioni del principe ereditario sarebbe il simbolo della riduzione della dipendenza dall’economia fossile. Altro marketing per convincere i governi del mondo che davvero vuole abbandonare combustibili fossili. Un filmato diffuso su YouTube mostra le prime costruzioni.

Fanno parte del progetto Sindalah, un’isola di extra lusso affacciata sul Mar Rosso, e The Line, una gigantesca smart city senza auto, che avrà la forma di un edificio stretto e lungo circa 170 chilometri per appena 200 metri, per ospitare 9 milioni di abitanti. È prevista la costruzione di un complesso industriale galleggiante di forma ottagonale, l’Oxagon, per le attività di ricerca e produzioni industriali. Proprio su di esso è in costruzione l’impianto fotovoltaico più grande del Medio Oriente che alimenterà un impianto di idrogeno verde. Entro il 2026 dovrebbe generare fino a 600 tonnellate al giorno del combustibile senza emissioni di carbonio. Ma è proprio tutto vero o solo fumo negli occhi a chi è pronto a credere che la rivoluzione green può partire anche dove zampilla l’oro nero? Uno studio pubblicato su Nature, tra le più importanti riviste scientifiche al mondo, rimarca come ammesso che la smart city nel deserto, una volta costruita possa essere a emissioni zero, non si può dire del processo di costruzione, che potrebbe richiedere ingenti quantità di energia e produrre massicce dosi di inquinamento.

«L’Arabia Saudita vuole diventare una potenza per l’idrogeno, l’elemento che impatta meno sull’ambiente perché ricavato da “rinnovabili”. D’altronde dispone di sole e vento in abbondanza per il fotovoltaico e l’eolico» afferma l’economista Carlo Andrea Bollino, esperto di energia e visiting professor nel centro di ricerca Kapsarc, prestigioso think tank del Medio Oriente. «Il programma italiano che vuole fare del nostro Paese il nuovo hub energetico nel Mediterraneo si abbina con quella dell’idrogeno verde arabo». Non solo: ci sono investimenti comuni in progetti ad alta innovazione nel comparto green con il Kaust (il più importante politecnico saudita); è previsto un impianto da mille addetti per la realizzazione di pneumatici Pirelli in joint venture con il fondo sovrano Pif; e, ancora, si è parlato di industria spaziale e settore minerario nell’incontro che il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, ha avuto a Riad con alti esponenti del Regno a cominciare da Khalid Al-Falih, ministro degli Investimenti. Ma da queste ambizioni non si fa affascinare Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia. «Non credo al disimpegno dal petrolio dell’Arabia già nel 2030. Lo stesso attivismo sulle rinnovabili mi sembra più un’accorta operazione di marketing, per inserirsi in un discorso globale, partecipare a obiettivi comuni, come dimostrato dalla Cop28. E non vedo come Riad possa far concorrenza alla Silicon Valley, che possiede un tessuto imprenditoriale senza eguali al mondo». A Bin Salman, però, piacciono le sfide, anche se con formule al limite del kitsch: è il caso della montagna che ospiterà i Giochi invernali asiatici del 2029, o dei piani turistici grandiosi quali il Red Sea Project, con 50 hotel per 8 mila camere, circa 1.300 proprietà residenziali disseminate su 22 isole appena fuori dalla costa, più altri sei insediamenti nell’entroterra. Tutte strutture sulla carta ecosostenibili. Realtà o bluff?

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