Lance Henriksen era stato scelto da James Cameron per il ruolo che poi è andato ad Arnold Schwarzenegger. È sempre stato «il cattivo» nei film, ma mai il protagonista. Parte che ha ottenuto a 81 anni grazie a Viggo Mortensen, regista del film Falling dove lui è il padre omofobo di un figlio gay. A Panorama racconta vita e anedotti sconosciuti. La sua storia comincia così: «Ho imparato a leggere a 30 anni…».
Quando ho iniziato a recitare, a 30 anni, non sapevo ancora leggere. Avevo ottenuto un ruolo in teatro e per imparare la parte ho dovuto chiedere a un amico di registrare su nastro tutto il testo. Lo ascoltavo per impararlo a memoria. Alla fine, prima di debuttare in palcoscenico, conoscevo le battute di tutti».
Lance Henriksen, 81 anni, non ha nessun problema ad ammettere che il suo approdo alla vita adulta e al mestiere di attore è stato piuttosto travagliato, nonostante il suo sia uno dei volti più conosciuti di Hollywood: è stato Bishop, l’androide che divide lo schermo con Sigourney Weaver in Aliens – Scontro finale, uno dei vampiri di Il buio si avvicina, il pilota Wally Schirra, uno dei sette astronauti scelti per il progetto Mercury dalla Nasa in Uomini veri, il pistolero Ace Hanlon in Pronti a morire, il feroce cacciatore di taglie di Dead Man, il detective che indaga su Sarah Connor in Terminator.
«Jim Cameron voleva che fossi il protagonista», rivela a Panorama al telefono dalla sua casa di Los Angeles. «Andammo insieme all’incontro con i produttori e mi disse: fagli vedere cosa può fare un Terminator. Avevo una cicatrice in faccia, vestiti strappati e per entrare nella stanza del provino tirai giù la porta con un calcio. Per me il personaggio era un combattente, diverso dal bulldozer interpretato da Schwarzenegger. Alla fine il produttore si rivolse a Jim e gli disse: prendi chiunque, ma non lui. Non ho rimpianti, Arnold era perfetto per quel ruolo». A credere davvero nel talento di questo solidissimo caratterista, spesso relegato a ruoli marginali ma indimenticabili, è ora Viggo Mortensen, che nel proprio esordio alla regia gli ha dato il ruolo da protagonista: in Falling, sugli schermi dal 26 agosto, Henriksen è Willis, un vecchio che vive consumato dalla demenza senile e dalla rabbia nella sua fattoria vicino a New York. Quando il figlio John (lo stesso Mortensen) va a prenderlo per portarlo a casa propria in California, dove vive col marito e la figlia adottiva, Willis riversa il proprio rancore nei confronti del figlio omosessuale. «Sono privilegiato ad aver avuto questa parte da Viggo. Credo mi abbia scelto anche perché so bene cosa sono le relazioni familiari travagliate: ho avuto un’infanzia tribolata, mia madre si è risposata cinque volte e i miei patrigni non mi volevano tra i piedi. Ne ho prese tante da bambino, ho cambiato molte case e scuole, odiavo studiare e scappavo sempre» dice l’attore, che a 12 anni è fuggito da casa definitivamente e ha iniziato a fare tanti lavori, tra cui lustrascarpe e minatore. A 20 anni è stato arrestato per vagabondaggio finendo per caso a fare la comparsa in The American, un film per la tv con Lee Marvin girato proprio nella sua prigione. «L’arte mi ha salvato la vita» dice. «Ho iniziato presto a dipingere murales, da giovane, quando per tre anni (dai 15 ai 18, ndr) sono stato in marina e viaggiavo in Europa. Poi è arrivato il cinema. Ora quando non sono sul set creo vasi di terracotta nel mio atelier».
Lei ha frequentato anche il celebre Actors Studio di New York. Che ricordi ne conserva?
La prima volta, ero giovanissimo, mi hanno respinto. Anni dopo lavoravo in teatro da un po’ e mi hanno accettato come osservatore (un esterno che può frequentare le lezioni e partecipare a prove se invitato da un membro della scuola, ndr). Ho imparato guardando i migliori, come Al Pacino. Eravamo amici, tutti molto poveri e con grandi sogni. In quel momento ho pensato che forse avrei potuto fare davvero questo mestiere.
La sua enorme popolarità è arrivata con la serie tv Millennium, ma quando ha avuto la sensazione di essere un vero attore?
Nel 1975, in Un pomeriggio di un giorno da cani, dove interpretavo un agente dell’Fbi. Durante una scena ricordo che Sidney Lumet mi disse: non so cosa stai facendo, ma continua a farlo. Per la prima volta ho sentito che un regista mi stava guardando e avrei potuto essere qualcuno in grado di recitare senza essere guidato come un burattino e di poter dare suggerimenti utili sui personaggi.
Con i registi le è andata sempre così bene?
Ho avuto la fortuna di recitare con i migliori: Lumet, Cameron, Bigelow, Jarmusch, Spielberg. Ricordo che suggerii a Steven di inserire una scena sul set di Incontri ravvicinati del terzo tipo e lui mi rispose: Lance, questo non è quel genere di film! Sono fortunato che non mi abbia licenziato in tronco (ride). Ero l’assistente dello scienziato interpretato dal regista François Truffaut. Di lui conservo un ricordo speciale.
Quale?
Da ragazzo avevo visto il suo film I 400 colpi e mi aveva commosso. Avevo pensato: a chi è venuto in mente di raccontare la mia infanzia? Ho trascorso sei mesi con Truffaut sul set, ma non ho mai avuto il coraggio di parlargli di tutto ciò. Alla fine delle riprese mi ha fatto recapitare un pacco: dentro c’era la sceneggiatura di I 400 colpi e un biglietto in cui aveva scritto «tu sei e sempre sarai questo ragazzino». Aveva capito tutto di me senza che glielo dicessi.
La sua filmografia conta oltre 230 titoli. Sono tantissimi per una sola carriera.
Molti mi sono serviti per pagare l’affitto. Sono quelli che chiamo film «da jet lag», in cui vengono a prenderti all’aeroporto e arrivi direttamente sul set frastornato (ride). Io però anche nei film a basso budget non ho mai fornito una recitazione di serie b, ma ho sempre cercato di dare il massimo. Amo stare insieme agli altri attori, ho imparato tanto guardando i miei colleghi quando non ero in scena. In fondo ognuno di noi attraverso questo lavoro vive mille vite e cerca se stesso.
Interpretare Willis in Falling è stato terapeutico, le ha fatto imparare qualcosa di sé?
Non so ancora se mi ha fatto bene. Certamente è stato difficile da interpretare, perché avendo conosciuto gli abusi, so quanto fanno male. C’è una scena in cui Willis litiga con sua figlia (l’attrice Laura Linney, ndr), e delirando fa un riferimento sessuale. È stato difficilissimo interpretarla, anche perché sono profondamente timido.
Viggo Mortensen ha detto in più di un’occasione che lei meriterebbe una candidatura all’Oscar per la sua interpretazione di Willis. Che ne pensa?
Gli sono grato per avermi scelto, in fondo mi piace pensare che questo ruolo mi aspettava da tanto tempo, c’era solo bisogno di un poeta come Viggo che lo scrivesse per me. Da parte mia ho fatto per lui quello che ho cercato di fare in tutta la mia carriera.
Cosa?
Fare in modo che il pubblico non si accorga mai che sto recitando.