Nell’illusione di liberarsi da pregiudizi e repressioni, dell’argomento si parla sempre e comunque. Lo si trasforma in battaglia ideologica e ci si costruiscono sopra modelli «politicamente corretti». Risultato: il rapporto che per sua natura dovrebbe mettere in gioco i corpi, annaspa tristemente fra troppe parole.
Alla fine, tocca dare ragione a Michel Foucault. Nel primo volume della Storia della sessualità, il filosofo francese contestava un’idea che, ancora oggi, va per la maggiore: la convinzione che in Occidente esista una «repressione sessuale» a cui dobbiamo sfuggire per diventare finalmente felici. L’idea repressiva era alla base della Rivoluzione sessuale auspicata da Wilhelm Reich in un famosissimo saggio che nel 2020 ha compiuto 90 anni, e sembra influenzare profondamente il dibattito pubblico e mediatico attuale. La spinta a liberarsi dalle gabbie della morale ha prodotto epocali cambiamenti a partire dagli anni Sessanta, e non sono pochi a sostenere che si debbano ancora compiere enormi passi avanti verso l’eden della sessualità non incatenata dal pudore e dai pregiudizi borghesi. Einaudi, per esempio, ha da poco dato alle stampe un volumetto molto interessante di Edoardo Lombardi Vallauri intitolato Ancora bigotti, che al potenziale acquirente si presenta con questa frase: «Benché spesso ci si racconti il contrario, la morale sessuale è uno degli aspetti per cui la nostra civiltà è progredita di meno. Oggi stesso, volendo, potete danneggiare la reputazione di una persona usando i suoi comportamenti sessuali». Queste poche parole sono importantissime: non perché dicano il vero, ma perché fanno emergere i due principali problemi che danneggiano il nostro rapporto con il sesso. Ovvio, il libro di Vallauri è molto più articolato e complesso, in certi passaggi anche efficace. Ma le righe che abbiamo citato bastano a inquadrare la questione. Proviamo a esaminarle.
Dobbiamo smetterla di essere bigotti, insomma. Poi, però, un altro concetto si aggiunge: effettivamente, parlare dei comportamenti sessuali di una persona è diventato un modo per danneggiarla, rovinarle la carriera, cancellarla dalla scena pubblica, come ha mostrato il movimento Me Too.
Ecco i due problemi: primo, è ancora radicata la convinzione secondo cui servirebbe «più liberazione»; secondo, il sesso è diventato un’arma da utilizzare nelle lotte di potere. A ben vedere, sono le facce della stessa medaglia. I due problemi, in realtà, sono uno solo: la sessualità, oggi, è una questione di parole. Si parla di sesso continuamente, ovunque, e più che all’atto sessuale in sé si dà importanza alle parole che lo descrivono, al modo in cui esso viene comunicato e si presenta sulla scena. Dunque, aveva ragione Foucault quando scrisse che, «se si prendono gli ultimi tre secoli nelle loro trasformazioni continue» non si può non notare un fatto: «Intorno e a proposito del sesso c’è stata una vera e propria esplosione discorsiva. […] Sul sesso, i discorsi non hanno cessato di proliferare: una fermentazione discorsiva che si è accelerata a partire dal XVIII secolo».
Foucault sosteneva che esistesse una «incitazione istituzionale a parlarne, e a parlarne sempre di più; ostinazione delle istanze del potere a sentirne parlare e a farlo parlare nella forma dell’articolazione esplicita e dei particolari indefinitamente accumulati». Del sesso bisogna parlare, entrando nel dettaglio. È utile, a questo proposito, la lettura di un volume appena uscito per Mondadori e firmato da Marco Cavalli e Alessandro Zaltron, About Sex. Non è uno dei tanti libri sul sesso (che sono una marea, ovviamente), bensì un libro sui discorsi che si fanno sul sesso. La parola, dicevamo, sostituisce l’atto.
Per la popolazione Lgbt, per esempio, il coming out è una sorta di battesimo arcobaleno: si deve comunicare al mondo la propria «identità sessuale». Questo perché il sesso, oggi, definisce l’individuo. Far parte della comunità gay non è questione di preferenze nel letto, ma – appunto – di discorsi. Si pretende che l’omosessuale si esprima in un certo modo, che abbia determinate posizioni politiche, che supporti alcune cause. E, quando non lo fa, è attaccato ferocemente dalla sua stessa comunità (è il caso delle lesbiche che si oppongono all’utero in affitto).
Anche il Me Too alimentato da tante neo-femministe si basa sulle parole: spinge a raccontare le molestie subite (vere, ma spesso presunte) e con dovizia di particolari. Invita le donne a «denunciare il loro porco», e ha dato vita a una proliferazione sterminata di dibattiti, interviste, confessioni. Ha prodotto anche linciaggi, carriere distrutte da denunce rivelatesi poi inconsistenti. Attori, manager, dirigenti, cantanti, vip: troppo spesso oscurando le vere molestie (che esistono) con il suo chiacchiericcio, il #MeToo si è rivelato uno straordinario strumento di potere, di controllo.
Tra le sue degenerazioni c’è la trovata dei contratti con cui si dovrebbe concordare un rapporto sessuale consenziente. Ecco che il sesso diviene a tutti gli effetti parola, stampata nero su bianco, pubblica, affinché gli atti di solito nascosti e in ombra escano in piena luce. E non c’è soltanto la forma estrema dell’accordo pre-accoppiamento. C’è pure la formidabile burocratizzazione che prende il nome di gender. Dicevamo che l’identità sessuale è divenuta costitutiva dell’individuo. Ebbene oggi esiste una miriade di identità sessuali in cui ciascuno può riconoscersi: gay, etero, trans, non binario e decine e decine di altre. Nel mondo anglosassone si combatte quella che qualche giornale ha definito «guerra dei pronomi». Ci sono dirigenti scolastici che hanno perso il posto per aver apostrofato al maschile un ragazzo che si definisce ragazza, o per aver usato «lei» per indicare una femmina che si riconosce come maschio. Di nuovo, la parola domina.
Tale deflagrazione linguistica – che secondo Foucault nasceva addirittura dalla confessione cristiana – si è manifestata in tutta la sua potenza proprio durante e dopo la liberazione sessuale. Il sesso «liberato» ha avuto come prepotente effetto quello di far aumentare i discorsi sulla sessualità. I quali discorsi, quasi sempre, partono dal presupposto che serve «più liberazione». Così il circolo vizioso si autoalimenta.
Dietro questa debordante ondata di parole c’è la filosofia decostruzionista che tanto successo ebbe in Francia e negli Stati Uniti (in qualche modo, dunque, Foucault comprese un problema di cui fu anche, in parte, causa). Una filosofia secondo cui – per andare con l’accetta – per cambiare la realtà basta cambiare il linguaggio. Per liberare il sesso basta parlarne; per cambiare il sesso basta cambiare un pronome; per far prevalere il proprio sesso sull’altro basta raccontare una molestia. Se la Parola di Dio era dono totale e amorevole, le parole degli uomini fomentano il conflitto, non creano bensì mistificano, confondono. Il risultato? Si parla tanto di sesso ma se ne fa molto meno che in passato. E c’è l’Eros in agonia, sostiene il pensatore sudcoreano Byung-Chul Han in un saggio di recente ripubblicato da Nottetempo.
Si avevano più rapporti prima della rivoluzione sessuale, quanto il matrimonio era ancora la regola, ha ricordato più volte lo statistico Roberto Volpi. Si fa sexting, ovvero ci si scambiano messaggi sul tema, si chatta, si dice e si svela tutto ciò che era sotto il dominio dell’oscurità: si illumina il sesso, e lo si brucia. Questa illuminazione eccessiva è la caratteristica della pornografia. Diceva un altro filosofo francese, Jean Baudrillard: «La sessualità non dilegua nella sublimazione, nella repressione e nella morale è molto più certo il suo dileguare nel più sessuale del sessuale: il porno».
In questo «più sessuale del sessuale» siamo immersi fino al collo, ma c’è chi insiste a dire che ne serve ancora di più, che ci serve una «educazione sessuale» – come nella serie Netflix Sex Education – dato che gli individui senza una guida (senza un discorso) non sono in grado di fare da soli.
Un sondaggio di Dottori.it ripreso da Vanity Fair sostiene che le coppie italiane non parlino abbastanza del sesso, mentre dovrebbero riscoprire la «sex positivity» e continuare a rimuginare sulla questione. Dopo tutto, ci hanno detto i filosofi, il linguaggio modifica la realtà, il linguaggio è la realtà. Dunque parlate. Se un domani poi vi servirà un figlio, potrete sempre comprarlo da una madre surrogata: non direte che è stata una compravendita, bensì un atto d’amore. E, di nuovo, sarà stata tutta una questione di parole.
