Il protagonista di Rocky e Rambo torna a interpretare, a 76 anni, l’uomo solo contro tutti in Samaritan, storia di seconde possibilità e dell’amicizia tra un giovane e un vecchio burbero con un alto senso della giustizia. L’attore si racconta a Panorama e dà la ricetta per non invecchiare: «Come Balboa, mai abbassare la guardia».
«Ho provato a immaginare varie volte cosa farò una volta che mi sarò ritirato. Magari andrò a pescare come fanno tanti alla mia età. Ma poi riemerge un desiderio di raccontare nuove storie, soprattutto quelle di personaggi in lotta contro il sistema o in lotta contro sé stessi. Se mi guardo indietro, a quando sono andato a 18 anni a New York con un biglietto di sola andata, tutta la mia vita è stata una lunga sfida per superare il timore di fallire». Sylvester Stallone, nonostante le 76 primavere, un divorzio in arrivo dopo 25 anni di matrimonio, è ancora così in forma da dimostrare una decina di anni in meno. In oltre mezzo secolo ha incarnato non solo Rocky, il pugile italiano di Philadelphia che sul ring si riscatta dall’indigenza, ma anche il reduce del Vietnam John Rambo, il detective Cobra e quello della commedia Tango & Cash, oltre a girare alcuni fortunati film da regista come Taverna paradiso, il sequel de La febbre del sabato sera intitolato Staying Alive e il recente successo de I mercenari – The Expendables, omaggio alle pellicole d’azione degli anni Ottanta.
Appartiene al filone action anche il nuovo Samaritan, su Prime Video, in cui è il signor Smith, un anonimo netturbino che quando stacca dal turno ripara vecchi oggetti rotti («Anche se quello che è rotto dentro sono io» dice l’attore). Questo finché il 13enne Sam Cleary (Javon Walton) inizia a sospettare chi sia in realtà Samaritan, un vigilante con superpoteri che difendeva gli onesti, finché dopo uno scontro con il rivale Nemesis, molti anni addietro è stato dichiarato morto. Quando un gruppo di criminali guidati dal malvagio Cyrus (Pilou Albaek) inizia a mettere a ferro e fuoco la metropoli, Sam si decide a far venire il signor Smith allo scoperto. «Il mio personaggio» racconta «è un vecchio che ha rinunciato a vivere, è diventato caustico e pessimista e ha finito per nascondersi dentro di sé. Il suo modo di agire è certamente significativo: in tempi in cui tutti vogliono disperatamente apparire, lui vuole nascondersi, essere uno come tanti, invisibile».
Lei che non può muoversi senza essere paparazzato, ha nostalgia di quando era un perfetto sconosciuto?
Un poco. Però la fama è il prezzo da pagare per avere successo. La leggenda di Hollywood, Edward G. Robinson, diceva che era tremendo non poter attraversare la hall dell’hotel senza che orde di fan lo fermassero per l’autografo. Ma che fu peggio quando smisero di farlo. Per questo non posso lamentarmi. Il film in ogni caso parla di qualcosa di più del desiderio di scomparire. È anche una celebrazione di come i giovani possono rivitalizzare gli anziani, ricordare che c’è ancora bisogno di loro, perché altrimenti l’unica alternativa è scomparire.
L’ipotesi non riguarda certo lei, che si getta ancora a capofitto in ruoli molto fisici, come in questo film e nel prossimo, I mercenari 4. Cosa la spinge a farlo ancora alla sua età?
In carriera ho subìto tanti infortuni e operazioni, a collo, spalle, braccia. Mi hanno ricostruito anche un ginocchio. A volte mi chiedo quando la smetterò di girare film in cui posso finire all’ospedale. Ma devo essere un po’ folle, perché mi piacciono i ruoli fisici. Certo, ho controfigure per gran parte delle scene, però ogni tanto mi dico: Sly, andiamo, questa scazzottata la puoi ancora fare! E provo a mettermi in gioco. Come diceva Rocky, cerco di capire se ho ancora l’occhio della tigre.
Cosa l’ha attratta di particolare per convincerla a questo film?
È una storia morale. Al cinema di solito sono gli eroi a risolvere tutto, ma nella vita reale, come dico sempre, siamo noi che dobbiamo diventare eroi e affrontare le cose, assumerci le nostre responsabilità. Per me è questa la metafora del supereroe nascosto sotto i panni di un uomo insignificante che raccoglie la spazzatura.
Ha fatto lavori umili, prima di avere successo come attore. Cosa le hanno insegnato?
Ho fatto veramente di tutto: ho pulito le gabbie di leoni allo zoo, il portiere, ho tagliato il pesce spada. Credo che tutto questo mi abbia insegnato quanto sia importante essere umili nella vita. Le esperienze sono fondamentali. Per esempio credo di non essere diventato un attore decente prima dei 40 anni.
Com’è stato lavorare con un giovanissimo attore al suo fianco?
Fantastico, perché quando invecchi e hai lavorato tanto come me, diventi cinico, tutto ti sembra scontato. Così quando incontri un ragazzino che vuole sapere tutto e ti chiede di aiutarlo, ti ricordi di com’eri affamato di conoscenza e di voglia alla sua età. E in qualche modo ringiovanisci anche come attore.
Samaritan è un supereroe tratto da un fumetto. In che modo è diverso dai tanti già presenti al cinema?
Negli ultimi anni l’universo dei supereroi è stato esplorato spingendo l’acceleratore su effetti speciali e scene incredibili. Per me però non c’è niente di più vero, come pericolo, che essere investiti da un’auto, come capita al mio personaggio, o essere aggrediti nell’oscurità di un vicolo. Credo che le persone normali possano condividere con questo genere di paure. E in questo senso Samaritan è un supereroe molto terreno, non viene da un altro universo, vive nelle stesse strade in cui cammini tu ed è esposto agli stessi pericoli di cui parlo alle mie figlie (Sistine, Sophia e Scarlet, ndr) per ricordare loro di non abbassare mai la guardia.