Il re dell’intrattenimento, che ama definirsi «l’uomo dell’altro» («ho sempre fatto l’altra tv, l’altra radio…») disdegna la satira («invecchia subito») racconta della sua amatissima Orchestra italiana («trascurata dalla critica»), della banda dei nottambuli («la mia famiglia») e di come potrebbe essere, se volesse, la nuova Rai.
Renzo Arbore, 86 anni il 24 giugno, non ha bisogno di presentazioni. L’età lo tiene lontano dalla vita frenetica, ma non ha smesso di lavorare. Sta riordinando l’archivio, ricco di pepite spettacolari: sarebbe un peccato andasse perduto come le lacrime nella pioggia versate dai replicanti di Blade Runner. Mentre parla con noi, si interrompe: in tv, nel programma di Serena Bortone, passa uno spezzone musicale di Renzo con Ricky Gianco. Ad Arbore brillano gli occhi. Gli piace essere ricordato, anche occasionalmente.
Ha fatto la storia della radio e della televisione, dovrebbero omaggiarla ogni giorno, altro che spezzone.
Non esageriamo, ma non sarei onesto con me stesso se dicessi che non ho lasciato un segno in tanti anni di carriera dentro il servizio pubblico.
Il suo giudizio sulla nuova dirigenza Rai? Ha qualche ricetta da suggerire?
L’emittenza statale si sta difendendo dalla concorrenza multipla delle altre televisioni e dei social. Deve sentire tutte le campane, per fare bene, nello spirito del servizio pubblico. Poi escogitare spettacoli unificanti, graditi al Nord, Sud, Centro e Isole. Dovrebbe fare molti tentativi: l’intrattenimento è importantissimo, quanto se non più delle arene di scontro politico e dei programmi strettamente giornalistici.
Troverà la strada giusta il nuovo amministratore delegato, Roberto Sergio?
È un tecnico di grandi capacità. Nella radio ha rinnovato tantissimo. Sotto la sua giurisdizione è nata Viva Rai 2! di Fiorello. La radio non sempre ha ascolti stratosferici, ma offre un ventaglio di format molto carini. Un ottimo laboratorio. Gli consiglio di trasportare quello stesso spirito nella televisione. Suggerisco di osare, sperimentare, individuare talenti e ottenere il massimo dalle professionalità presenti in azienda, che non sono poche.
Su Fabio Fazio che trasloca a Discovery si è fatto un’idea?
Vicenda controversa. Non so se Fabio avesse voglia di andare in un’altra scuderia. Per me resta un mistero. Dispiace che la Rai se lo sia fatto scappare. Anche perché con lui c’erano due della mia banda: Nino Frassica e Maurizio Ferrini, alias Signora Coriandoli. Soprattutto quest’ultimo, Fazio lo stava rilanciando alla grande.
Qualcosa nella sua carriera non è andata per il verso giusto?
Ho un solo rammarico: che i successi di radio e televisione abbiano oscurato quelli della mia Orchestra Italiana. Sono stati 30 anni entusiasmanti, dalla fondazione, nel 1991, con concerto di esordio al Festival jazz di Montreaux, al 2021. Oltre 1.600 concerti, l’orchestra stabile più longeva del mondo. Abbiamo suonato nella Russia di Gorbaciov, in Australia, negli Stati Uniti, in Sudamerica, in tutta Europa. Nata per valorizzare la canzone napoletana, ha trovato ostilità da parte di alcuni cantanti partenopei. Pensavano che l’usurpatore venuto da Foggia, ovvero io, volesse rubare il loro repertorio. Una sciocchezza. Per l’Orchestra, grazie a Mariangela Melato che me lo presentò, cantò addirittura Enzo Jannacci: una memorabile O mia bela Madunina in piazza Duomo a Milano, accompagnato dai mandolini, perfetta fusione nord-sud. Mi amareggia che la critica non abbia capito il valore dell’Orchestra Italiana.
Però ha capito benissimo Quelli della notte.
Persino Umberto Eco si incuriosì per quel programma. Mi presentò durante una cena a un gruppo di intellettuali, sempre nella Milano vivacissima che frequentavo grazie a Mariangela, per discutere del significato rivoluzionario di Pazzaglia, Luotto, Catalano, Marchini, Laurito, Annichiarico, D’Agostino, insomma tutta la banda di nottambuli.
Nottambuli che sente sempre.
Sono la mia famiglia, purtroppo qualcuno è mancato. Ci telefoniamo e scriviamo, talvolta c’incontriamo. Sono tutti molto riconoscenti.
Chi l’ha stupita di più?
Frassica. Non solo perché feci con lui 65 puntate di Indietro tutta!. Nino ha dimostrato di avere molte frecce al suo arco, ai tempi non immaginavo una carriera così fulgida e completa.
La sua prima volta in Rai?
L’esame da maestro programmatore di musica leggera. Mio compagno di banco era Gianni Boncompagni. Veniva da Stoccolma, aveva tre figlie. Un ragazzo di Arezzo di vivissima intelligenza. Io conobbi lui, Gianni conobbe il ragazzo di Foggia che amava i Beatles e i Rolling Stones. Diventammo amici inseparabili.
Ma la prima trasmissione?
Mi diedero credito in radio affidandomi Settimana Santa ad Harlem, un venerdì di Pasqua. Dovevo selezionare e trasmettere musica sacra, grandi cantanti di gospel. Trovai i pezzi più belli. Quella puntata piacque a Brunetto Bucciarelli-Ducci, democristiano, presidente della Camera. Chiamò Ettore Bernabei per farsi mandare la registrazione ed elogiò il programma. Aumentarono le mie quotazioni. Dopo feci Le cenerentole, sempre in radio, sulle canzoni belle ma dimenticate. Non fu un successo, funzionò come biglietto da visita per avventure successive, come Per voi giovani e, stavolta sul Secondo Canale tv, Speciale per Voi. Programma da cui nacquero, tra altri, Nada e Lucio Battisti. Era un talk show. I cantanti venivano messi sulla graticola, spinti al confronto con i colleghi.
Stiamo dimenticando Bandiera gialla, in coppia con Boncompagni.
E chi lo dimentica? Fu una trasmissione-detonatore. La gente andava al cinema, il sabato pomeriggio, con i transistor da cui usciva Bandiera gialla. Inventammo i giovani, che non interessavano a nessuno. Il concetto di teenagers era sconosciuto, in Italia.
Quando scoprì l’America?
Andai la prima volta a New York con Boncompagni, a spendere i soldini guadagnati in Rai. Ma l’America la scoprii da bambino, sfollato a Brindisi, con il chewing gum e il cioccolato regalati dai soldati statunitensi. Poi, più grande, a Napoli dove studiavo giurisprudenza, presi a suonare il clarinetto, qualche volta il contrabbasso, per i soldati americani di stanza in città. Non sono mai stato comunista, mai stato fascista. L’amore per l’America mi ha vaccinato da tutti gli «ismi».
È collezionista di modernariato, gli Usa sono ben rappresentati.
Ho una collezione ampia, centinaia di oggetti, dalle radioline ai flipper, dalle borsette da donna agli occhiali da diva, sculture di plastica, cappelli, lampade anni 50. Ho deciso di trasferire tutto a Casa Arbore, a Foggia. Uno spazio pubblico polifunzionale, per mostre, eventi, presentazioni. Spero serva da calamita per far scoprire la mia città, purtroppo poco valorizzata dal punto di vista turistico. Ci ho vissuto fino ai 18 anni, è al centro di un territorio di grande bellezza, con le vicine Isole Tremiti, il Gargano, Manfredonia, Cerignola.
Pentito di non aver avuto figli?
Sì, supplisco con i nipoti. La mia vita è stata movimentata, pittoresca. Troppo per la responsabilità di crescere un figlio.
E l’amore?
Ne ho avuto vari, tutti mi hanno arricchito. I nomi li sapete, non mi piace squadernare le mie vicissitudini.
Mara Venier, Mariangela Melato. I primi che vengono in mente.
Hanno lasciato segni profondissimi. Gli amori finiti non sono abiti dismessi di cui sbarazzarsi. Mariangela non c’è più da dieci anni e mezzo. Mi ha insegnato il codice della serietà e fatto amare la sua Milano. Con Mara c’è affetto costante. Ma i sentimenti rimangono una questione privatissima.
Qual è la caratteristica del suo fare spettacolo?
Sono «l’uomo dell’altro». Per capirci, Pippo Baudo, bravissimo, seguiva le strade consuete. Io ho sempre avuto voglia di fare l’altra radio, l’altro cinema, l’altra notte, l’altra musica, l’altra domenica.
Di rottura, con Roberto Benigni critico cinematografico, divertente invenzione.
Benigni non l’ho inventato io, aveva già fatto il film Berlinguer ti voglio bene. L’ho solo introdotto in tv, facendogli capire che si può improvvisare, al contrario del cinema. Anche con Marisa Laurito è andata così: recitava con Eduardo.
Improvvisazione e rivoluzione: lo stile Arbore può definirsi cosi?
Non saprei, le definizioni le lascio ai critici. Farò un programma per Rai Cultura sulle conoscenze musicali, avvicinate negli anni. Anche quando intervistavo Gino Paoli non ho mai puntato sull’attualità. Semmai ho fatto cazzeggio, preziosa forma d’arte dello spettacolo. Così come mi sono sempre tenuto distante dalla satira deperibile, che prende di mira personaggi del momento: diventa subito vecchia e inutile. Diverso è cazzeggiare sui tipi umani eterni, sui massimi sistemi, sulle domande senza tempo, come «viene prima l’uovo o la gallina»? Quelli della notte era fatta così. Se ne guardi una puntata oggi, quasi quarant’anni dopo, è ancora fresca come allora.
