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Quei figli tolti ai genitori da un giudizio sbagliato

Quei figli tolti ai genitori da un giudizio sbagliato

Negli ultimi 18 mesi 12.338 minori sono stati dati in affido e solo 1.540 hanno fatto ritorno a casa. Dietro questi numeri ci sono gli assistenti sociali che indirizzano, e a volte condizionano, le decisioni dei tribunali. Figure cruciali con un potere grandissimo, che può diventare arbitrio, come dimostrano le storie raccolte in tutt’Italia da Panorama.


Possono essere freddi i numeri, ma alcuni sono più freddi degli altri. In Italia, ogni giorno 23 bambini radunano le proprie cose, vestiti e giochi, le mettono in una borsa e vengono tolti a un genitore. O a entrambi, nei casi più gravi. Vuol dire uno ogni ora, notte compresa. Le famiglie saltano per aria, loro ne fanno le spese sempre e comunque.

Famiglie spezzate, certo, con genitori che si sono divisi su tutto. Qualcuno perde la testa, altri si ammalano o perdono il lavoro. Adulti violenti, minacciosi, improvvisamente incapaci di badare ai figli. Ma anche mitomani, ossessionati dalla voglia di vendicarsi del coniuge. E per ogni abuso, per ogni violenza, per ogni vendetta, madri e padri spesso lasciati a se stessi, che cercano giustizia, o anche solo protezione, e invece si sentono trattati come fossero i colpevoli, sotto esame, giudicati.

Negli ultimi 18 mesi, secondo il ministero della Giustizia, 12.338 bambini sono stati dati in affido. Solo il 34% di loro rientrerà in famiglia; il 12,2% andrà verso l’adozione; l’11,8% finirà direttamente in una famiglia o sarà consegnato a un singolo genitore. Mentre il 16,3% verrà ospitato in quegli istituti che una burocrazia sempre in vena di eufemismi chiama casa famiglia, ma che non sono né l’una né l’altra cosa che il nome promette.

E al centro di queste contese, ben più che gli avvocati e i magistrati del tribunale minorile, ci sono gli assistenti sociali. Figure temute e spesso odiate, una cui semplice frase, «Guardi che le faccio togliere i bambini», può innescare reazioni a catena e far accettare le ingiustizie peggiori. Nel Paese ci s’imbatte in tanti i casi in cui un genitore, già in balìa di un coniuge violento o molto ammanicato, si è sentito minacciato anche dagli assistenti sociali. I quali, a loro volta, denunciano tassi di aggressione allucinanti. Sono in 30.000 e secondo un’indagine commissionata dal loro ordine professionale il 90% di loro ha subìto almeno una volta violenze o minacce nello svolgimento del proprio lavoro.

Vittime o carnefici? Senza alcuna pretesa di emettere sentenze, ma anche per non ignorare una situazione potenzialmente esplosiva e che gli stessi tribunali trattano con imbarazzo, il tema dell’operato degli assistenti sociali esiste e va affrontato. Panorama si è rivolto ad associazioni di genitori e ad avvocati esperti di diritto di famiglia, in tutta Italia, e ha raccolto decine di storie, consultato provvedimenti del tribunale, parlato con genitori sfiancati da una giustizia spesso sorda e burocratica. Per evidenti ragioni di tutela dei minori, queste storie sono state un minimo schermate, in modo che specie nelle città più piccole i protagonisti non siano riconoscibili. Ma sono vicende emblematiche. Sono la punta di un iceberg. Raccontarle può far sentire meno soli centinaia di genitori che subiscono e soffrono in silenzio. Che scontano non solo la fine di un matrimonio o di una convivenza, ma la messa in discussione dell’unica scialuppa a cui si aggrapperebbero volentieri: essere ancora madri e padri.

G. è una professionista pugliese di 42 anni, in carriera. Ha un figlio di sei anni, nato dalla relazione con un collega che poi si è rivelato violento. L’aggredì perfino quando era incinta, ma lei non lo denunciò, anche per paura delle amicizie potenti che lui vantava in ambienti giudiziari. Ha accettato orari di visita anche insensati, per non far arrabbiare l’ex compagno. Poi, avvisata dai genitori di alcuni compagni delle reazioni di terrore che aveva il bimbo quando sapeva che sarebbe arrivato il papà («Si rifugiava sotto i banchi, si nascondeva per tutta la scuola») si è rivolta al tribunale dei minori. E ha anche presentato una denuncia per maltrattamenti. Il padre si è fermato qualche mese, ma poi ha ritrovato la sua arroganza. Un assistente sociale ha iniziato a organizzare vari incontri per far riavvicinare il bambino al papà, ha sollecitato alla madre la remissione della querela per «dimostrare assenza di rancore», ha fatto firmare una specie di contratto tra genitori e figlio in cui il padre si impegnava a non picchiarlo più. Surreale ammissione di colpa. Per fortuna, del caso si è occupato un pm esperto, che ha preso le relazioni dell’assistente sociale e le ha cestinate.

Sempre dal Sud, in Campania, arriva l’autentico calvario di D. un ricercatore universitario di 48 anni. Sposato da soli quattro anni e con una bimba di tre, gli diagnosticano un tumore rarissimo e inizia un estenuante turismo sanitario verso gli ospedali di mezza Italia. Per sua fortuna, non gli mancano i soldi. Ma gli manca la solidarietà di quella che credeva una famiglia. La moglie non solo non lo va mai a trovare in ospedale, ma chiede la separazione. Per forza di cose, D. non ha potuto esercitare per molto tempo il diritto di vedere la figlia, ma per fortuna guarisce e si fa avanti, con lei che ormai ha quasi 10 anni. La moglie gli fa sospendere il diritto di visita, grazie a una relazione dei Servizi sociali che stigmatizzano «l’assenza di un rapporto padre-figlia da anni» e sottolineano «la necessità di non turbare il minore con la presentazione di nuove figure di riferimento».

Ci sono però anche i padri che stanno sempre fuori e non certo per ospedali. Ma poi, improvvisamente, scoprono insospettabili pulsioni paterne. P. fa l’ingegnere, vive in Lombardia e viaggia tantissimo per lavoro. La moglie F. dopo la maternità ha smesso di lavorare. Ha fatto due figli e racconta che la terza bimba, a distanza di anni, è stato l’ultimo tentativo di rimettere insieme i pezzi. Si decide a chiedere la separazione quando anche una psicologa privata si accorge che la piccola è letteralmente terrorizzata dal papà, violento e alla fine denunciato per questo. Anche qui, le operatrici dei servizi sociali spingono la signora a ritirare le denunce (ma il reato è procedibile d’ufficio) e fissano orari di visita del padre esageratamente generosi. Alla fine delle indagini, il pm confermerà le accuse di violenze. E va detto che anche le relazioni degli assistenti sociali cambiano, per intervento diretto dei loro superiori. Insomma, a volte il sistema si corregge da solo. Il contesto, specialmente se provinciale e soffocante, spesso peggiora situazioni già drammatiche.

In un piccolo centro dell’Abruzzo, S. è dovuta ricorrere a un avvocato di Roma perché il marito era troppo potente. E impunito. Lui è un imprenditore di famiglia molto ricca e aspetta 10 anni e due figli per rivelarsi un mezzo sadico. A dire di lei, ovviamente. In un crescendo di violenze, l’uomo la minaccia perfino di morte e lei si rassegna a dormire nella cameretta con la figlia più piccola. Quando gli arriva la prima notifica delle denunce, il marito gliela sbatte in faccia al grido di: «Cos’è, la rivolta delle schiave?». Gli assistenti sociali incaricati di studiare la situazione dei due bimbi (sette e 10 anni) alla fine si presentano con un’agenda che riporta fedelmente giorni e orari di visita richiesti dall’imprenditore. Esattamente le stesse richieste che il tribunale aveva respinto. A questo punto entra in scena una nuova assistente sociale, più autonoma, e il padre la insulta e la minaccia più volte. Lei lo denuncia, anche per tentata estorsione, e lui risponde con nuovi esposti per falso in atto pubblico e abuso d’ufficio. Ora le denunce del padre sono state archiviate, mentre le indagini su quelle dei servizi sociali proseguono. Non stupisce, del resto, che il Consiglio nazionale degli assistenti sociali avverta da tempo come nove operatori su dieci siano oggetto di minacce, ritorsioni, violenze varie.

A volte, in questi autentici deliri che sono certe separazioni, finiscono in mezzo anche i nonni. Che però non sempre sono quelli delle pubblicità. In una città del basso Piemonte, M.L., 40 anni, è stata accusata dal marito di violenze sui due figli di otto e 11 anni. I minori sono stati affidati ai servizi sociali con collocazione presso la casa del papà. Ma lui non c’è mai e alla fine dei bambini si occupa la nonna paterna, in una sorta di affido di fatto. Una nonna, peraltro, che negli anni precedenti si era distinta per assenteismo. Questa vicenda, gestita in modo tanto irragionevole dagli assistenti, apre un altro problema, come spiega Anna Maria Sgarbi, matrimonialista modenese con molti decenni d’esperienza: «Assai spesso il genitore affidatario prende decisioni rilevanti per i bambini senza che gli assistenti sociali se ne accorgano». Per questo, non solo Sgarbi ma anche molti suoi colleghi pensano che servirebbe una regolamentazione più stringente degli affidamenti, anche sotto il profilo della durata (spesso eccessiva). «Non ho mai visto un affidamento ai servizi sociali che abbia risolto il problema per il quale era stato disposto» racconta con amarezza.

È invece ambientata in una delle scuole più prestigiose di Bologna la storia di P., 45 anni, a cui il marito è riuscito a far togliere i figli dopo averla fatta passare per pazza. Lui nel frattempo ha una nuova compagna, che fa la mamma a tutti gli effetti, e lei ha preferito andare a vivere a molti chilometri di distanza, anche se non ha rinunciato a un’estenuante battaglia legale. All’avvocato ha raccontato, registrazioni alla mano, anche di alcuni colloqui con gli assistenti sociali in cui l’allontanamento dei figli non le veniva solo prospettato, ma direttamente minacciato. In un caso abbastanza simile, verificatosi pochi mesi fa a Roma, le minacce di «togliere i figli per sempre» sono arrivare da un assistente sociale a una madre esasperata dal fatto che l’ex marito a casa sua fosse anche armato fino ai denti. E nella capitale, c’è il caso di due assistenti sociali che in una separazione molto traumatica, prima sembrano dare ragione alla madre e stilano una relazione sfavorevole al padre. Poi lui li denuncia e loro diventano improvvisamente molto garantisti nei suoi confronti. Anche perché ovviamente si tratta di un «pesce grosso».

Emilia Velletri, avvocato con studi a Taranto e Roma, di storie simili ne ha viste più d’una. «Non sempre lavorano male gli assistenti sociali, questo va detto, e a volte basterebbe salire la scala gerarchica, però il tema delle minacce purtroppo c’è e incredibilmente sono dirette al genitore più debole». Non solo, ma in alcuni ambienti è talmente una prassi diffusa, continua la professionista, «che gli stessi assistenti sociali non si rendono conto che alcune affermazioni così perentorie sono reato». Oltre al fatto che quando alla minaccia di una querela del genitore, si risponde paventando una relazione negativa al tribunale, si arriva direttamente all’estorsione.

Chi ne ha viste di tutti i colori è Francesca Capodiferro, separazione da incubo, che ha deciso di fondare e dirigere Eolica, un’associazione che si batte per i diritti dei bambini e dei genitori. Milanese, 48 anni, Capodiferro sta coinvolgendo genitori di tutta Italia, avvocati e psicologi, e a Panorama racconta: «Non posso gettare la croce addosso soltanto agli assistenti, però raccolgo da tempo molte storie in cui i bambini e il genitore più debole finiscono ostaggio di superficialità, burocrazia e arroganza, laddove sarebbe proprio dallo Stato e dai servizi sociali che ci si aspetterebbe di trovare una minima tutela». Bambini come merce di scambio, spesso come ostaggi. Ma anche genitori messi spalle al muro e ai quali nessuno pensa. n
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