Rinascimento Pizza
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Rinascimento Pizza

Attenzione maniacale alle farine, ai lieviti, agli impasti e a ogni fase della cottura, sommati a condimenti da grandi chef. E una qualità media che si è impennata a beneficio di tutti. Il momento d’oro del piatto più popolare d’Italia.

Aveva già capito tutto Alexandre Dumas quando, visitando Napoli nel 1835, scrisse: «A prima vista la pizza sembra un cibo semplice, ma dopo un esame, apparirà complicato». E se era complesso allora, figuriamoci oggi, che da pasto da «lazzari» è diventato l’ultima riscoperta del patrimonio culinario italiano.

La pizza, fino a pochi anni fa conosciuta come pasto di ripiego, vive un autentico Rinascimento. Nuovi locali che aprono, la qualità che sale, pizzaioli-chef-guru che studiano e sperimentano e si lambiccano il cervello per spingere al massimo livello gusto e salubrità. Il grano, gli impasti, i lieviti, l’oculata scelta dei condimenti, i tempi e i modi di cottura... Tutto è ottimizzato per arrivare alla migliore esperienza e digeribilità (per ottenere la quale si punta su farine ad alto contenuto proteico e sulla lunghissima maturazione degli impasti).

«È in corso una rivoluzione del piatto democratico per eccellenza» sintetizza Laura Mantovano, direttore editoriale del Gambero Rosso, che in settembre festeggerà i dieci anni della sua Guida alle pizzerie d’Italia (sottinteso: alle migliori), premiate con una valutazione da uno a tre «spicchi». «Ci si trovano circa 700 locali, un numero minuscolo rispetto al totale (127 mila pizzerie, dati Cna Alimentare al 2020, ndr) ma la qualità media cresce e le eccellenze sono sempre di più. Luoghi pari a ristoranti con esperienza gastronomica completa. La pizza richiede una grande arte e non è un caso se i pizzaioli li riconosci da una semplice Margherita: è lì che vedi la mano, lo studio, il lavoro. Non si diventa maestri in un giorno».

Questo scatto evolutivo è partito da lontano e rimane nei libri con un nome e un cognome: Simone Padoan. È lui che più di vent’anni fa decide di rompere gli schemi pensando al più popolare dei cibi come alta cucina, creando quella che fu subito chiamata «pizza gourmet» - definizione oggi un po’ ripudiata a favore di «pizza contemporanea» o «degustazione» - che ispirerà schiatte di perfezionisti del gusto. Era l’inizio del millennio e ancora oggi Padoan serve e sperimenta nel suo locale I Tigli, a San Bonifacio (Verona): materia prima di estrema qualità, lievitazione naturale, ricercatezza negli impasti, affinatissime tecniche di cottura.

Eataly

Altri innovatori sono stati Gabriele Bonci, che nel 2003 aprì l’impensabile Pizzarium a Roma elevando la più popolare tra le popolari pizze, quella al taglio, a prelibatezza per palati esperti; e Franco Pepe, che dal 2012 nel suo Pepe in grani, a Caiazzo (Caserta) crea pizze «tailor made»: tutto fatto a mano, ingredienti locali, solo l’occhio del pizzaiolo a individuare quando la pasta raggiunge il punto giusto. «La mia formazione arriva da lontano» racconta lui a Panorama. «Mio nonno aveva un forno dagli anni Trenta, mio papà negli anni Sessanta ha aperto una pizzeria, io ho cercato la mia strada nel 2012. All’inizio avevo 7 dipendenti, oggi sono 43. Un piccolo miracolo italiano». Da Pepe, che ha aperto anche in Franciacorta all’Albereta Relais & Châteaux, e al San Barbato Resort di Lavello (Potenza), non può mancare l’assaggio della notoria «Margherita sbagliata», pizza infornata bianca con fiordilatte di bufala e condita a freddo con riduzioni di pomodoro riccio di Caiazzo e di basilico.

«Dopo Pepe anche i pizzaioli napoletani hanno capito e si sono aperti al mondo», spiega ancora Mantovano. «Sono cominciati i confronti con maestri di altre scuole e si è creato un movimento che è andato a vantaggio del prodotto nel suo complesso». Non è dunque un caso se sono arrivati in altre città nomi come Sorbillo, Starita, La Masardona, 50 Kalò di Ciro Salvo o l’Antica pizzeria da Michele che ha appena aperto la sua 25esima sede (a Gedda, in Arabia saudita).

Oggi i maestri riconosciuti non mancano. Nomi legati alla cultura dell’impasto e a luoghi dove la pizza vale il viaggio. Ne facciamo alcuni: pochi tra i tanti. Antonio Pappalardo con i suoi Cascina dei Sapori a Rezzato (Bs) e Inedito, in centro a Brescia. A Roma i lievitati perfetti di Pier Daniele Seu, di Seu Pizza Illuminati (noto anche per la sua pizza dolce), oppure 180 Grammi di Jacopo Mercuro, imperdibile indirizzo per gli amanti della «romana», bassa e croccante. I Masanielli di Francesco Martucci, a Caserta, è invece riconosciuta «Migliore pizza del mondo» dalla guida online «50 top pizza». Tra i giovani, Diego Vitagliano a Napoli fa pizza lievitata 36 ore e altamente digeribile, mentre a Milano ci sono Crosta, che fa pizza alla pala di giorno e tonda di sera, ma sempre con la pasta del pane, e l’innovativo street food InTasca, dalla collaborazione tra lo chef stella Michelin Giuseppe Molaro e l’esperto della lievitazione Tammaro Valerio Ucciero. Da bere, Champagne.

Altro caposcuola è il veneto Renato Bosco, con il suo caleidoscopio di panificazioni (l’aria di pane, la Doppiocrunch...) da degustare nei suoi locali (sia quelli omonimi sia Saporè) a San Martino Buon Albergo (Vr) e a Milano. A pochi passi da lui, Carlo Cracco ha fatto parlare per mesi della sua Margherita oggi a 22 euro. Ma ha contribuito a diffondere il verbo della pizza di qualità.

Anche per Crazy Pizza di Flavio Briatore si è molto studiato e ora è sbarcata anche a Roma e Milano. La pizza è sottilissima, con 10 diversi tipi di impasto tra cui scegliere, accompagnata da una lista di vini con tanto di Tignanello e Champagne. Una pizza smaltata di glam (prezzi da 13 euro) che contribuisce a elevare la percezione di un prodotto ormai «oltre». Perché al di là dei grandi maestri del lievitato, la qualità media si sta alzando assai e si vede dal successo di nuove pizzerie e catene di pizzerie. Basti citare il successo di Alice, 159 punti vendita di pizza al taglio e 76 milioni di euro di fatturato proprio in virtù di un prodotto superiore. O Berberè, nata dai due fratelli Aloe con l’intento di servire pizze con pasta madre e farine top quando ancora se ne parlava poco o nulla, e oggi ha all’attivo 15 locali.

Ma vale la pena ricordare anche le pizzerie Eataly in dieci città italiane: lì si serve tra l’altro una «tonda» che usa farine artigianali e biologiche, con impasto lievitato almeno 50 ore e cottura in forno a legna rotante a circa 330°C per 3 minuti e mezzo, in modo che la pizza rimanga morbida dentro e croccante fuori. Un principio simile lo segue la pizza di Cocciuto, che a Milano ha aperto tre locali e altri due arriveranno tra fine aprile e maggio. «La nostra pizza ha un volume ampio, con disco grande e cornicione alveolato, la lievitazione è di almeno 25-30 ore e la cottura in forno elettrico a 500 gradi per sigillare l’impasto all’esterno e cuocere la pasta all’interno» spiegano Paolo Piacentini e Michela Reginato, soci co-founder di questa piccola catena dallo stile urban chic. Per capire la cura che ci mettono, basti dire che i lieviti madre usati per gli impasti provengono da pasticcerie francesi e belghe, «per le maggiori note aromatiche». Oppure spiegare la Margherita: pomodoro San Marzano raccolto e subito trattato per non farlo ossidare, olio d’oliva tonda di Iblea monocultivar preso in esclusiva da un’azienda nel Ragusano, mozzarella km zero e basilico biologico. Infine una spolverata di parmigiano di montagna stagionato 60 mesi. E questo a 8 euro. Aveva proprio ragione Dumas.

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Massimo Castelli