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Benvenuti nel Lab Museo

Benvenuti nel Lab Museo

Lo storico polo milanese della scienza e tecnologia rompe la tradizione polverosa degli spazi di cultura: ospita aree dove toccare, sperimentare e capire. Anche quale potrebbe essere la strada per il futuro.


Scende negli abissi, mentre punta le stelle: ospita il «Toti», il primo sottomarino costruito in Italia dopo la Seconda guerra mondiale, assieme a un frammento di roccia lunare. Viaggia all’indietro nel tempo, tra collezioni di aerei, locomotive, un transatlantico che sembra il clone del Titanic (salone delle feste compreso), più un catamarano gigantesco ancorato al soffitto, sospeso nel vuoto, che così prosegue a solcare l’aria dopo aver volato tra le onde. E poi, in ordine sparso, tute e pigiami spaziali, vecchie radio a manopole e telefoni a disco, bici d’acciaio, oggetti di gomma, una sfilata di cose custodite sottovetro e da qualche parte nella nostra memoria. Riemergono durante la visita, si spintonano nel cervello una teca dopo l’altra, travolgono la mente di ricordi e nostalgia.

Eppure, non è il solito museo, intanto per una questione posturale. Non si sta mai dritti, si solleva di continuo la testa all’insù o la si sporge verso il basso, la s’infila, incuriositi, in fessure, nicchie e visori. Ci si ritrova a girare un po’ ebeti su sé stessi, intenti a catturare l’insieme, a domandarsi come abbia fatto un traghetto a infilarsi in un capannone, da che parte è passato il razzo che punta il cielo in mezzo al cortile. «Questo è un luogo che si può largamente toccare. Come fai a proibire di mettere le dita su una locomotiva, dopo che ha sopportato manone sporche di carbone per decenni?» si chiede con una punta di compiaciuta retorica Fiorenzo Galli, dal 2001 direttore generale del Museo nazionale della Scienza e della tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, nome chilometrico per un accumulo di temi, riferimenti, immaginari, più l’omaggio al personaggio che meglio di tutti li ha esplorati e ridefiniti. Guido Ucelli, l’imprenditore e mecenate che lo fondò nel 1953, lo definì «il museo del divenire del mondo».

Una sintesi retrospettiva, che include necessariamente una progressione: «Un approdo difficile da inquadrare nell’immaginario collettivo che il pubblico ha di questi posti, tendenzialmente polverosi, noiosi, immutabili» commenta Galli. Qui, dieci minuti dopo aver letto una spiegazione su una targa o assistito alle acrobazie di un robot, si finisce in una stanza dove i piedi dipingono scie di colore sul pavimento o in un’ambiente che suona note, rumori ed echi al ritmo di ciascun movimento. Stimoli per tutti i sensi, pensati pure per coinvolgere i portatori di handicap: chi non vede, può sentire. E viceversa. Tutti usano il tatto: «La metodologia è “hands on”, la partecipazione alle attività didattiche. Le basi di un’educazione informale». Che prevede d’indossare camici e sperimentare i rituali degli scienziati, combinando pozioni e mescolando elementi, oppure scoprire le leggi che regolano la danza e i rimbalzi di una bolla di sapone.

Il vero cuore di questa istituzione racchiusa in un monastero del Rinascimento, una parentesi di silenzio e natura nel caos metropolitano, coincide con la sua dozzina abbondante di laboratori tematici. L’ultimissimo dedicato alla chimica, più quelli di genetica, alimentazione, biotecnologie e ampi dintorni. Ambienti regolati da meccanismi propri, sorretti da un lessico che scompagina la liturgia di un museo: sono interattivi, non passivi. Abitano stanze dove l’apprendimento collima finalmente con l’esperienza. Governati non da guide, ma da animatori scientifici, che il senso del dinamismo lo stringono nell’etichetta con cui li si definisce.

Sono per bambini e adulti, alunni o docenti, affinché acquisiscano schemi da riproporre altrove, nelle classi scolastiche. Il museo si fa simbolo, portavoce di un metodo. «Sento ministri ragionare della necessità di fare cose che noi facciamo da sempre. In Italia vige una visione dello Stato che è participio passato. Se riportato su grandi numeri, questo genere di approccio in avanti diminuirebbe drasticamente l’abbandono scolastico e universitario, un grande costo sociale ed economico. Inoltre e soprattutto, il mondo del lavoro avrebbe a disposizione una scelta di ragazzi che hanno deciso sin da piccoli su che strada incamminarsi».

La questione è sottile: il polo milanese, che prima del Covid accoglieva oltre mezzo milione di visitatori in un anno, per il 36 per cento stranieri, ospitava 5 mila gruppi scolastici in media da 24 alunni ciascuno, non ha la presunzione di sostituirsi al sapere cattedratico, di prendersi un ruolo non suo per consolidare la conoscenza. «Per quella ci vuole un percorso. Noi facciamo scattare scintille, accendiamo lampadine. Diamo un orientamento che possa favorire la coltivazione di attitudini».

È la stessa lezione dell’Exploratorium di San Francisco, la patria dei campioni del pragmatismo della Silicon Valley, uno tra i 100 centri della ragion pratica con cui quello guidato da Galli collabora. «Fare squadra è fondamentale. Nel laboratorio dedicato a Marte, i ragazzi si dividono in gruppi di lavoro per salvare la base spaziale. Vengono qui e si divertono, giocare è imparare, come insegna Konrad Lorenz: i leoncini che fanno la lotta tra loro, si stanno preparando al mondo». Tutto è improntato alla semplicità, a una fruizione intuitiva: «Sono spazi difficili da allestire e preparare, ma facilmente utilizzabili. Come la cucina giapponese, complessissima, che non ha bisogno del coltello. Si risolve mangiandola in un boccone».

Confinanti con i laboratori, inaugurate poco prima della pandemia, quindi pressoché inedite per il grande pubblico, ci sono le nuove dieci sale dedicate a Leonardo da Vinci, che alternano macchine e modelli storici, opere, volumi antichi e installazioni. Un viaggio con dentro una coerenza e una traiettoria: «Non c’era il Leonardo ingegnere e quello artista. Come lui, noi siamo una realtà umana univoca, dobbiamo recuperare una riunificazione della nostra cultura. Prendere la forza del nostro valore identitario affinché diventi una modalità per andare in una direzione credibile. Un museo è il luogo delle muse, techne in greco vuol dire arte. La tecnica è una forma d’arte».

Con questo puzzle di rimandi e significati, Galli anticipa l’evoluzione dell’istituzione che dirige: «Arte e scienza hanno progredito insieme, mostreremo sempre meglio questo connubio». Attraverso statue, opere del Novecento già presenti e presto recuperate dagli archivi, più i Sette savi di Fausto Melotti, gruppo di sculture risalente agli anni Settanta che tra pochi giorni troveranno posto nel chiostro del museo.

Sarà, anzi lo è già, un’esperienza supplementare a quella dei laboratori, alla scoperta di navi, aerei, souvenir dal passato e dallo spazio: «Vogliamo essere un luogo fortemente biodiverso al suo interno, dove guardare in modo orizzontale, non verticale. In cui incontrare forme d’arte che raccontano il mistero, il simbolico e il concreto. È il posto giusto per capire la propria identità, per scorgere il futuro e rappresentare una contemporaneità vivace». n

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