La sua missione non è mostrare ciò che è stato, ma quello che ci sarà. Panorama è entrato, in anteprima, nell’avvenieristico edificio a forma di occhio negli Emirati Arabi dove missioni spaziali, auto volanti e alberi che non si incendiano sono realtà.
Ha la forma di un occhio, perché il suo sguardo è rivolto avanti. Al centro l’edificio rimane vuoto, giacché il domani è incerto, indeterminato, tutto da scrivere. C’è un fitto gioco di simbolismi, un intarsio di rimandi, a sostenere la nuova meraviglia dell’architettura e dell’ingegno umano, un luogo che nel nome di battesimo stringe una contraddizione: il Museo del futuro. L’esposizione non di ciò che è stato, ma di quello che sarà. Il fulcro di nessuna retrospettiva, anzi della prospettiva della vita sulla Terra (e non solo) nei prossimi 50 anni. Un’avventura: l’idea centrale non è lasciare i visitatori passivi di fronte a teche e pannelli, ma farli interagire, portarli dentro una macchina del tempo che compie un balzo frontale di mezzo secolo. Appena aperto a Dubai e subito visitato da Panorama, tra i primi media mondiali ad averne accesso, il museo comincia il suo percorso all’interno di un ascensore intergalattico. La simulazione di un razzo che conduce verso una stazione orbitante nello spazio: ci si arriva sbirciando dagli schermi-finestrini, abbandonando il deserto, poi gli oceani e i vari continenti che si fanno sempre più minuscoli. Le gite tra le stelle per i civili non sono un’utopia, almeno così sembra in questa capsula lanciata in verticale.
L’esperienza prosegue tra vaste stanze e lunghi corridoi, dove scrutare la luna da vicino, immaginare l’esistenza su altri pianeti, ammirare braccia bioniche e pasti da consumare su Marte; vedere il proprio viso animarsi in una tuta da esploratori di galassie: un chioschetto con telecamera riprende espressioni di meraviglia o facce ironiche e le proietta su un display lì accanto, calzandoli in questi abiti avanguardisti. I vestiti della prossima normalità astrale.
Il museo non è un parco giochi, non propone attrazioni né inventa orizzonti: ne mostra le traiettorie. Non fa previsioni, racconta sfide. Come quelle del piano dedicato alle biotecnologie per l’ambiente, ai metodi per preservare vegetali e animali dall’estinzione, dal surriscaldamento globale, dalle minacce pressanti e quelle imminenti. Pure con l’aiuto dell’intelligenza artificiale: un’enorme sala contiene la libreria della vita, un gigantesco archivio del Dna e della morfologia delle differenti specie. Inclusi rettili e insetti (se aracnofobici, meglio girare alla larga). È un patrimonio dai colori cangianti della diversità della natura. Un’arca di Noè contemporanea, galleggiante nel vuoto. Lo scopo è capire come rendere le piante resistenti agli incendi, a un eventuale trasferimento nello spazio, a qualunque asperità ne miri la conservazione.
Da un’altra finestra-display, si sbircia la Dubai del 2071: le strade semideserte, i droni taxi e le auto volanti, i grattacieli-alveari sempre meglio protesi a sfidare il cielo. Un po’ straniante, va riconosciuto. Ma proprio quando il museo sembra sull’orlo di mettere in ombra l’uomo di fronte all’avanzare del progresso, si arriva all’intero piano dedicato a coltivare il benessere della mente. Un salone dove distendersi e salette dove meditare, godersi i poteri benefici di suoni e vibrazioni, soffiate da respiri d’aria artificiale o da gong dorati di sapore orientale. Il meglio è la stanza della terapia della connessione: non si sta su un social network ma seduti attorno a un tavolo, ripetendo un coro tra sconosciuti per sentirsi parte di un insieme. Un elemento che concorre a far alzare la stessa voce. Se ne esce un po’ storditi, confusi, ormai inclini all’impossibile, preparati all’inverosimile.
Il cane robot stupisce appena un po’, così come il pinguino volante, il drone con veste d’uccello che svolazza tra i corridoi e si lascia accarezzare volentieri. Seppur di latta, sono simulacri di sentimenti nel regno dello strapotere del cervello, delle sue sovrabbondanti estensioni. Un consiglio, prima di lasciare l’edificio: cercare l’ingresso alla terrazza che conduce nel centro dell’occhio, mostra il più vicino possibile la grandiosità e la complessità della struttura. Un trionfo di vetro e d’acciaio, dall’impatto visivo strabiliante. Un puzzle di 1.024 pannelli fusi tra di loro, una cifra non casuale: 1.024 byte formano un kilobyte, l’unità di base della memoria digitale. Quella che il museo celebra dandole una tangibilità, un indirizzo di residenza. Di giorno, incastrato tra i grattacieli del Financial Centre di Dubai, è un’icona magnetica nello skyline metropolitano; di sera, quando si accende, la sua sagoma rigida assume la morbidezza del tessuto, una trama delicata che ricorda la statua di un Canova avveniristico.
Secondo il National Geographic è già nella lista breve dei musei esteticamente meglio riusciti del pianeta. A detta dei costruttori, decisamente meno prudenti, è l’edificio più bello del mondo. Di sicuro è tra i più originali e rivelatori, a cominciare da una delle frasi in arabo che corre lungo la struttura definendone l’equilibrio di vuoti e pieni, le trasparenze che lasciano filtrare la luce e flirtare con i volumi interni. È una citazione dello sceicco Mohammed bin Rashid Al Maktoum, primo ministro degli Emirati Arabi Uniti. Recita così: «Non potremo vivere per centinaia d’anni, ma i prodotti della nostra creatività possono lasciare un’eredità che dura a lungo dopo che siamo andati via». Il Museo del futuro racchiude tutto questo: quello che diventeremo domani, grazie a ciò che siamo adesso. n
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