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Manara: «In un’epoca bacchettona le mie donne sexy sono anarchiche»

Manara: «In un’epoca bacchettona le mie donne sexy sono anarchiche»

Il maestro del fumetto rivendica la libertà d’espressione del nudo: A a Panorama racconta il rapporto con geni come Hugo Pratt e Federico Fellini. Intanto, a 77 anni, la sua sfida è stata illustrare Il nome della rosa di Umberto Eco.

Quando ho voglia di rilassarmi leggo un saggio di Engels, se invece desidero impegnarmi leggo Corto Maltese». Così la pensava Umberto Eco, che sdoganò i comics presso gli intellettuali con pagine su Steve Canyon, parte del Diario minimo, uscito nel 1963. Nulla di strano dunque se Il nome della rosa, suo bestseller mondiale, è finito in fumetto, disegnato da Milo Manara – 77 anni, nome d’oro delle «nuvole parlanti» -, in libreria con il marchio Oblomov – La Nave di Teseo. Primo volume, presto arriverà il secondo.

Manara, conosceva Eco?

Di sfuggita, era amico di Hugo Pratt. Tra me e Eco ci fu un curioso incidente.

Ovvero?

Fulvia Serra, direttrice del Linus di allora, mi chiese un disegno per la figlia di Umberto. A Carlotta piaceva un mio personaggio, Giuseppe Bergman. Feci il disegno, che aveva qualcosa di erotico, nel mio stile. Tempo dopo mi imbattei in Eco, per caso. E lui, fulminandomi con gli occhi, disse in tono di rimprovero: ecco chi ha fatto quel disegno per Carlotta. Stupidamente non avevo chiesto quanti anni avesse la ragazza.

Nulla in confronto alla censura dell’editrice americana Marvel.

Tutta colpa della Donna Ragno. Mi piaceva esplorare il mondo dei loro supereroi. Lo aveva fatto il grande Jean Giraud, pseudonimo di Moebius, con Silver Surfer. Disegnai per una copertina Spider Woman praticamente nuda, ma dipinta di rosso, come fosse in calzamaglia, secondo gli usi della casa: un modo ipocrita per salvare il pudore. Aveva una posa tipica di Spider Man, che esaltava al massimo la sua femminilità anatomica. Marvel mi chiuse le porte. Per solidarietà, i disegnatori della scuderia, in testa Frank Cho, si ispirarono a me per altre copertine. Marvel non poteva cacciarli tutti.

Quando iniziò a disegnare fumetti?

A casa mia, in Alto Adige, erano proibiti. Mia mamma, maestra, era convinta che fossero deleteri e con tutte quelle figure allontanassero dalla lettura. I fumetti non hanno fatto parte del mio corredo evolutivo. Leggevo di straforo quelli a casa di amici, per esempio le tavole di Franco Caprioli per Il Vittorioso. Solo dopo anni ho scoperto il nome dell’autore. Credevo che i fumetti nascessero spontaneamente, come le foglie.

Manara: «In un’epoca bacchettona le mie donne sexy sono anarchiche»
La giornalista Miele, protagonista di Rose a Primavera.
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La copertina di X-Men.
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Milo Manara in un ritratto di Ulysse Nardin.
Manara: «In un’epoca bacchettona le mie donne sexy sono anarchiche»
Una tavola da Il nome della rosa (Oblomov)

Avrà pure preso la matita in mano.

Sì, contro tutto e tutti. Dipingevo. Ho avuto un periodo astrattista, da Transavanguardia, poi sono tornato al figurativo. Il vero colpo di fulmine fu quando scoprii Barbarella, di Jean-Claude Forest. Mi ha cambiato la vita, a 21 anni. Facevo prove, disegnavo donne sexy e mi proponevo. Finché un piccolo editore mi affidò un personaggio.

Femminile…

Subisco il fascino del rappresentare il nudo femminile. Ma l’arte, da Prassitele in avanti, è pura esaltazione della donna come Dio l’ha fatta.

Non le manca l’aria al giorno d’oggi?

Oggi c’è un bacchettonismo eccessivo, da destra e sinistra, di impostazione americana e politicamente corretta. Viene anche dal movimento femminista. Dimenticano che l’espressione artistica è anarchica.

Si vanta di avere in copertina il nome più grande che quello del personaggio. È così?

Vero, è stata una fortuna non essere legato a un solo personaggio, anche se ho fatto qualche serialità: la giornalista Miele e il mio alter ego Giuseppe Bergman, per esempio. Chi legge Tex o Diabolik è interessato ai personaggi, passa in secondo piano chi li scrive e disegna, almeno presso il grande pubblico. Con me è diverso.

Nella vita contano gli incontri. Hugo Pratt?

Seppi di lui leggendo Sgt. Kirk, rivista su cui Pratt esordì con storie del periodo argentino, su testi di Héctor Oesterheld, l’autore dell’Eternauta, desaperecido e forse buttato in fondo all’oceano dagli squadroni della giunta militare. Sulla stessa rivista lessi La ballata del mare salato, prima storia di Corto Maltese. Feci l’impossibile per rintracciare il Maestro e lo beccai a Lucca, al Festival del fumetto. Mi inginocchiai davanti a lui.

Addirittura?

Sì, Pratt si mise a ridere e si divertì perché parlavamo con la stessa inflessione: le nostre origini non sono distanti. Lasciammo Lucca sul mio camper. Hugo ne aveva bisogno per caricarci libri e portarli dalla casa di Milano a Parigi. Poi abbiamo girato insieme mezza Europa e realizzato di concerto due storie. Ce ne sarebbero state altre, tra cui la storia di un gladiatore, un prigioniero celta portato a Roma. Pratt era interessato al confronto tra civiltà. Purtroppo è mancato prima. Non l’ho mai chiamato per nome, solo Maestro, la nostra era un’amicizia asimmetrica. Aveva vent’anni più di me, ma più che un padre era un fratello scapestrato, un uomo libero. Diventava feroce con chiunque volesse limitarlo. Non ho mai litigato con lui, capivo prima se stava per scoppiare il temporale. Una volta morto, sono andato sulle sue tracce, in Argentina, e ho conosciuto una sua figlia che vive laggiù.

Altro incontro: Federico Fellini.

Ogni volta che ne parlo mi viene in mente la branda che fece mettere in anticamera a Chianciano, dove passava le acque con Giulietta Masina. Ero lì anch’io, per disegnare storie tratte da suoi testi: Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet, quest’ultimo un film sempre immaginato e mai fatto. Non c’era un buco libero, negli alberghi. Fellini fece portare una brandina e mi trovai a dormire lì, ai piedi del lettone dove ronfavano Federico e Giulietta. Sono stato loro figlio per una notte. Pensai che avevo la stessa età che avrebbe avuto il loro bambino, nato nel 1945 come me, se non fosse morto pochi giorni dopo essere venuto al mondo.

Fellini era esigente?

Più che esigente. Un collega. I film prima li disegnava. Faceva così anche per il cast: partiva dal disegno del personaggio, poi cercava gli attori. I suoi erano ritratti spirituali, facevano affiorare la verità nei tratti di volto e corpi. Disegnava anche i propri sogni, ogni mattina, su un blocco a quadretti. Una miniera per i suoi film. Con lui ero osservato e giudicato da una persona del campo.

Autori italiani di oggi che la convincono?

Ce ne sono. Per esempio, Paolo Bacilieri: da ragazzino i suoi genitori lo portarono da me. Ora è un nome importante. Poi Zerocalcare, bravissimo, ma gli interessa poco il valore del disegno, guarda più alla parte espressiva. È però capace di passare dal comico al commovente, al tragico. Alcuni lo paragonano a Pazienza, ma Andrea è riuscito a mostrare nel disegno persino se un personaggio ha freddo. Eravamo amici a Bologna, era più giovane di me e purtroppo è mancato troppo presto.

Che difetti ha il fumetto attuale?

In Italia abbiamo abbandonato l’avventura, che ci aveva dato non solo Pratt, ma Dino Battaglia o Franco Caprioli, capaci di adattare a fumetti le novelle di Maupassant o il Moby Dick di Melville. Autori amareggiati: la cultura ufficiale non li riconosceva. Niente applausi come oggi a Zerocalcare. Oltre a questo, il fumetto si occupa troppo di temi sociali: sessi, generi, madri e figli.

Una figura femminile che le piacerebbe disegnare?

La cantante Elodie. Mi aveva fatto cercare, può darsi che si faccia. È bella, con atteggiamento libero.

Si offende se le si ricordano le collaborazioni con i fumetti erotici popolari anni Sessanta?

Scherza? Mi vergogno semmai della qualità di quei fumetti, io disegnavo Jolanda. Ma sono stati una palestra straordinaria per imparare il mestiere. E per mantenersi, eh…

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