Questa pratica, oggi così di moda (si parla tanto di «mindfulness»), è in realta un esercizio di raccoglimento profondo, che si basa sul silenzio, sull’amore verso Dio, sull’arte difficile dell’introspezione. Ispirata ma diversa dalla visione buddhista, può riportare all’essenza del cristianesimo.
In fondo, è tutta una questione di amore. Di un amore per Dio così smisurato da desiderare di diventare una sola cosa con lui. Questa è la mistica, nella definizione che il grande studioso Marco Vannini fornisce in Storia della mistica occidentale (Le Lettere): «L’esperienza dell’uno, ossia dell’unità profonda tra uomo e Dio». È una «esperienza dello spirito» in cui l’essere umano rimuove la volontà personale, estingue «ogni desiderio e contenuto» così che la sua volontà «divenga la volontà di Dio».
Il gesuita Jean-Pierre de Caussade (1675-1751) parlava di «abbandono alla provvidenza divina». Meister Eckhart (1260-1328) invitava i fedeli a seguire «la via del distacco», a creare «il vuoto» dentro di sé affinché Dio potesse riempirlo. Giovanni Climaco (579-650) nella Scala del paradiso posizionava sul primo gradino «la rinuncia alla vita del mondo».
Sentite la passione potente di Iacopone da Todi (qui lo rendiamo in italiano corrente): «O giubilo del cuore/ che fai cantare d’amore! (…) Quando il giubilo è ardente/ ci fa invocare Dio». E non è forse in veste di amante che parla Teresa di Lisieux quando, pensando a Gesù, sussurra: «Voglio donarmi totalmente a lui, non voglio più vivere che per lui»? Di testi del genere è ricolmo il nuovo Meridiano Mondadori dedicato alla Mistica cristiana (a cura di Francesco Zambon): da Origene a Caterina da Siena passando da Agostino d’Ippona, non c’è che da scegliere.
Perché insistiamo tanto sull’amore? Per sfatare il pregiudizio che da sempre grava sulla mistica: che sia una sorta di introversione, una chiusura in sé stessi che inizia con il rifiuto del mondo per finire nella «pace dei sensi» o, peggio, nell’annegamento del vuoto spirituale. Identico pregiudizio grava su un’altra pratica, oggi tanto di moda eppure guardata con sospetto dai cristiani: la meditazione. Certo, come scriveva John Main (1926-1982), monaco benedettino tra i più grandi divulgatori della meditazione cristiana, meditare significa «discendere nel profondo di noi stessi», ma lo scopo è «incontrare Dio». Non è una chiusura, ma un’apertura: la più totale possibile.
Per ottenerla serve una pratica costante, che comprende esercizi fisici (corretta postura, respiro lento e profondo) ed esercizi spirituali. Allenamento, insomma. Dopo tutto, il cristiano è chiamato già da San Paolo al «combattimento spirituale», che richiede una certa preparazione. «Come il passeggiare, il camminare e il correre sono esercizi corporali», istruiva Sant’Ignazio di Loyola, «così tutti i modi di preparare e disporre l’anima (…) a cercare la volontà divina nell’organizzazione della propria vita per la salvezza si chiamano esercizi spirituali».
Maestro di questi esercizi è padre Antonio Gentili, barnabita, che la meditazione la pratica e, soprattutto, la insegna da decenni. Impossibile prescindere dai suoi libri, tra cui il fondamentale Dio nel silenzio (Ancora) e Cerca il silenzio. Troverai te stesso e Dio (avvincente conversazione con Rosanna Brichetti Messori edita da Ares). «L’essere umano in quanto tale è per natura orante», spiega Gentili a Panorama. «Già la parola ebraica che significa preghiera indica una pratica introspettiva: il guardarsi dentro e ascoltarsi».
Tutto questo, purtroppo, al nostro orecchio suona strano. Basta citare la meditazione per far pensare all’Oriente, dove ogni tradizione ha il suo sistema, dallo zazen giapponese alla vipassana indiana (una approfondita panoramica è offerta da La mente che respira, di Paolo Giammaroni, edito da Mediterranee). Tra i cristiani, conferma Gentili, «la dimensione introspettiva che si avvale di silenzio, di introspezione, non è coltivata. Spesso noi sacerdoti siamo educati all’arte di parlare, ma non a quella di tacere o insegnare a tacere. Il magistero si svocia a proposito del “sacro silenzio”, ma tale silenzio è garbatamente snobbato».
Lo stesso Joseph Ratzinger, nel 1989, scriveva una lettera su Alcuni aspetti della meditazione cristiana, spiegando che «la meditazione cristiana dell’Oriente ha valorizzato il simbolismo psicofisico, spesso carente nella preghiera dell’Occidente. Esso può partire da un determinato atteggiamento corporeo, fino a coinvolgere le funzioni vitali fondamentali, come la respirazione e il battito cardiaco. L’esercizio della “preghiera di Gesù”, per esempio, che si adatta al ritmo respiratorio naturale, può – almeno per un certo tempo – essere di reale aiuto per molti».
Ratzinger si spingeva a sostenere che «autentiche pratiche di meditazione provenienti dall’Oriente cristiano e dalle grandi religioni non cristiane, che esercitano un’attrattiva sull’uomo di oggi diviso e disorientato, possano costituire un mezzo adatto per aiutare l’orante a stare davanti a Dio interiormente disteso, anche in mezzo alle sollecitazioni esterne».
Queste «pratiche» possono, certo, essere mutuate dall’Oriente non cristiano. Lo zazen insegna a mantenere la colonna vertebrale dritta come un albero della vita, a controllare il respiro. Main e i suoi seguaci utilizzano il mantra, ma appunto «da cristiani». Ripetono, seduti, a occhi chiusi, maranathà (vieni Signore Gesù), per almeno 20 minuti al giorno. La sillabe se le «incollano al respiro», come dice Gentili, e nella ripetizione costante sta il segreto dell’introspezione, dalla «preghiera del cuore».
Attenti, però: il cuore si deve spalancare, altrimenti – come ammoniva Ratzinger – «l’orante resta prigioniero di uno spiritualismo intimista, incapace di un’apertura libera al Dio trascendente». Questo distingue la meditazione cristiana da pratiche oggi tanto di moda come la mindfulness, versione occidentalizzata e commerciale della tradizione buddhista. Troppo spesso la meditazione oggi diventa una sorta di sollievo dallo stress, una valvola di sfogo che permette di affrontare una quotidianità sfibrante. Lo ha notato pure Papa Francesco: «La preghiera non è un calmante per attenuare le ansietà della vita; o, comunque, una preghiera di tal genere non è sicuramente cristiana».
A ribadire il concetto ci pensa un saggio bello e pungente (Mindfulness, edito da Ares) di Iacopo Iadarola, frate carmelitano. Spiega che questa, benché in qualche modo mascherata, rimane una pratica buddhista, e prevede una visione del mondo totalmente altra rispetto a quella cristiana: «Se parlassimo solo di tecniche di respirazione o di rilassamento, di una specie di ginnastica mentale, no: non sarebbe necessario essere buddisti e non sarebbe un problema farlo da cristiani. Ma nonostante la scorza neutra con cui viene presentata la mindfulness – solo un protocollo terapeutico – basta prendere in mano un qualsiasi testo per vedere come la prima cosa che si dice è che la mindfulness non è una tecnica, ma un modo di essere, un modo di vivere, un modo di vedere le cose che appunto include dei teologumeni culturalmente marcati che sono quelli buddisti».
E qui torniamo al punto di partenza: l’amore, che rimane al centro della mistica e della meditazione. La meditazione confezionata a fini commerciali invita «ad amare se stessi». I cristiani dovrebbero invece praticarla per imparare ad amare Dio. E questa è forse la parte che riesce difficile ai più.
