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Martin Garrix dal vivo a Berlino (Getty Images)
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Martin Garrix: «Quelle notti magiche con Bono»

Il deejay da 19 milioni di dollari all'anno e con 16 milioni di follower su Instagram concede un'intervista unica a Panorama in cui racconta dell'incontro con gli U2, della sua idea di musica elettronica e annuncia nuove stimolanti collaborazioni.


Questo viaggio può cominciare da Burn out, inno alla gioia di una gioventù che non si sente per niente bruciata: «Non dobbiamo sognare il bello, quello che facciamo lo è già». Seconda tappa, Scared to be lonely (quasi un miliardo di riproduzioni complessive su Spotify), malinconica ballata sulle paure della solitudine. In alternativa, si ascolti In the name of love (oltre un miliardo di riproduzioni), elegia di quell'appiglio indispensabile chiamato amore: «Quando la tristezza ti lascia a pezzi nel letto, ti stringerò nelle profondità della disperazione».

Basteranno testi e melodie per accorgersi dell'equivoco, per riconoscere l'infondatezza del pregiudizio: definire Martin Garrix solo un deejay caciarone, un prodotto massificato da consumo notturno, significa non conoscerlo bene. È vero, il 25enne olandese con 16 milioni di follower su Instagram e, prima della pandemia, redditi pari a 19 milioni di dollari l'anno (secondo la rivista Forbes, più del suo pigmalione David Guetta), è noto per far saltare all'unisono decine di migliaia di persone con le mani arrese verso il cielo. In parallelo, però, ha costruito una carriera musicale solida e coerente. Sperimentando nei territori del pop, dandogli un passo più gioioso, uno sprint consolatorio e ottimista, un perenne sottintendere che il lieto fine, tutto sommato, è possibile.

Se ne sono accorte leggende delle note quali Bono Vox e The Edge, che con gli U2 hanno venduto 200 milioni di copie e con il dj hanno firmato il singolo We are the people, l'inno degli ultimi Europei strappati dall'Italia all'Inghilterra. Garrix lo suonerà a fine agosto a Creamfields, lo storico festival inglese che segnerà il suo ritorno alle esibizioni live prima di un tour in Usa. «Lavorare con Bono e The Edge resta la cosa più folle che mi sia mai capitata nella vita» ammette il deejay in videochiamata dalla sua casa di Amsterdam, dove ha uno studio di registrazione. Capelli arruffati, barba un po' incolta, sguardo sveglio da bravo ragazzo, scompagina il protocollo concedendo a Panorama il doppio del tempo previsto per quest'intervista esclusiva.

Com'è una collaborazione tra artisti di fama planetaria ai tempi del coronavirus? Si fa tutto su Zoom?
«Ho iniziato mandando a Bono una traccia audio, ci siamo sentiti al telefono la sera stessa, lui si è messo a cantarla, ad arricchirla
con le parole. Siamo arrivati a un punto in cui entrambi eravamo soddisfatti. Ma in ogni istante ero frastornato, incredulo, mi chiedevo se fosse tutto vero».

E poi, metabolizzato lo stupore?
«Ho preso un aereo e sono volato nel Sud della Francia, dove Bono trascorre l'estate. Era la prima volta che lo incontravo, c'era pure
The Edge. Ci siamo messi all'opera per unire i pezzi».

Gli ha rubato qualche segreto del mestiere, ha carpito la formula per non spegnere mai il successo?
«La cosa che mi è piaciuta di più è stato il suo atteggiamento. Non se ne stava stravaccato su una sedia con lo schienale all'indietro e lo sguardo annoiato, è innamorato del processo creativo. Ha fatto il «sold out» in qualsiasi arena del mondo, abbiamo un'età diversa, ma l'energia è la stessa. Penso sia la voglia a rendere unici, a mantenere viva la forza di continuare».

Lei è riuscito a trovarla anche durante i lockdown?
«Ho iniziato ad andare in tour quando avevo 15 anni, non mi ero mai fermato. All'improvviso, tutto si è messo in pausa. È stato difficile, non sapevo come si fa a rallentare. Poi, ho trovato il mio passo. Quando il tempo si dilata e non c'è una scadenza dietro l'altra, si viene invasi da uno strano benessere».

I frutti di questo momento zen?
Li porto addosso (e mostra la maglietta con un logo, ndr). Con il mio amico produttore Maejor ho formato il duo Area21. Il nostro primo album, pronto entro l'anno, racconta la storia di due alieni che attraversano l'universo e ovunque trovano amicizia, felicità, armonia. Poi, arrivano sulla Terra».

E cosa succede?
«Non capiscono i confini tra i Paesi, il bullismo, il razzismo, perché la gente tratta male il pianeta. C'è una canzone in cui i visitatori intergalattici azzerano i follower dei social network, perché non ne possono più di vedere tutti con gli occhi fissi sul telefono. Attraverso la musica, vogliamo mettere uno specchio di fronte alle persone, aiutarle a riflettere. La Disney ci aiuterà a rendere il messaggio visibile. È un progetto sperimentale e divertente».

Lei insiste sempre sul contenuto. Non le dà fastidio che il suo lavoro sia spesso liquidato come un contenitore, un pretesto
per agitarsi?

«Credo sia una questione di equilibrio. Amo i brani più lenti, se li metto in un palazzetto la gente sta ferma. E poi ci sono i pezzi veloci, intensi, in stile club. L'errore, in sintesi, è etichettare in modo univoco la musica elettronica».

Come la racconterebbe?
«Oggi è un misto di generi che non ne sviliscono l'identità, la rendono accessibile a un pubblico vasto. La musica è un concetto potente, una bellezza invisibile da sentirsi addosso, in grado di scatenare emozioni, risvegliare memorie. Detto questo, non voglio piacere a tutti. Faccio ciò che sento, se arriva sono felice».

Durante l'ultimo anno e mezzo si è esibito a bordo di una barca, da un tetto e su una torre in diretta streaming. Gli eventi digitali sono transitori o la prossima normalità?
«Succedeva già da prima. Quando caricavamo su YouTube i miei set a Ultra o Tomorrowland (tra i festival di dance più celebri al mondo, ndr), ognuno raccoglieva milioni di visualizzazioni. Lo streaming è uno strumento per avvicinarsi al proprio pubblico e per farsi conoscere. La pandemia ha alzato il livello e allargato la fruizione di questa esperienza».

Sarà d'accordo che un concerto dal vivo rimane inarrivabile...
«Vivere separati l'uno dall'altro è innaturale, così poco salutare. Era giusto farlo, però resta innegabile che la gente desideri una connessione, abbia bisogno di percepire l'energia degli altri. I club, i bar, gli spettacoli e i festival sono necessari. Il fatto che stiano lentamente ripartendo è un grandioso messaggio di speranza».

La prima cosa che urlerà nel microfono dopo essere salito sul palco?
Non ho dubbi, solo tre parole: «Quanto mi siete mancati...».

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Marco Morello

Mi occupo di tecnologia, nuovi media, viaggi, società e tendenze con qualche incursione negli spettacoli, nello sport e nell'attualità per Panorama e Panorama.it. In passato ho collaborato con il Corriere della Sera, il Giornale, Affari&Finanza di Repubblica, Il Sole 24 Ore, Corriere dello Sport, Economy, Icon, Flair, First e Lettera43. Ho pubblicato due libri: Io ti fotto e Contro i notai.

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