Possono avere significati sessuali, trasmettere aggressività oppure rivelare l’età di chi li usa. Guida al mondo nascosto dietro le faccine, e le altre icone umorali, che riempiono le chat.
Avete scelto le parole con cura, scrivendo e riscrivendo il messaggio più volte. Avete riletto con scrupolo ogni frase prima di premere invio, sicuri, stavolta, di ricevere una risposta articolata, gentile, almeno sensata. Invece, la notifica di WhatsApp vi gela e vi inchioda: giusto un pollice che punta verso l’alto, imperativo, distrattamente assertivo. Non c’è scampo, nemmeno la consolazione del silenzio: neanche la speranza (vana) che prima o poi riceverete un qualche tozzo di frase. Che certo, lui o lei stava per digitarla, poi è arrivata una chiamata in entrata, una distrazione improvvisa, un impegno impellente e quindi gli è passato di mente. Quell’okay, quel ditone giallo, è crudelmente conclusivo. Sul lavoro, nelle amicizie, peggio ancora in amore.
Se ci siete rimasti male, sappiate che non siete soli. Anzi, se avete meno di trent’anni, siete in numerosa, malinconica compagnia: «Gli appartenenti alle generazioni più giovani stanno provando a evitare il pollice in su perché lo trovano passivo-aggressivo e lo giudicano un indice di un basso sforzo in una chat» ha spiegato al New York Post Keith Broni, responsabile del sito Emojipedia, una sorta di Wikipedia delle faccine, che ne indaga significati e usi comuni.
Da questo spunto, il giornale americano ricava un lungo articolo, disserta proprio dell’evoluzione logica e delle involuzioni nell’esegesi degli emoji (in italiano rigorosamente al maschile, come ha sancito l’Accademia della Crusca), gli stati d’animo cristallizzati in un’immagine, l’esondante – non sempre, a quanto pare – espressività del nostro tempo digitale. «Non sono un linguaggio in sé perché non possiedono una reale grammatica. Sono usati per estendere la comunicazione tradizionale, per aggiungere una cornice emotiva alla scrittura» chiarisce a Panorama Philip Seargeant, scrittore e linguista inglese, autore per Cambridge University Press del saggio The Emoji Revolution. Perché di rivoluzione si tratta: «Quando parliamo con qualcuno di persona, gli trasmettiamo tantissimi elementi, come il tono di voce, la gestualità, i movimenti del volto. Così il nostro interlocutore può capire se siamo ironici o meno, un tipo di informazione che è molto più complicato far emergere in una chat. Gli emoji sono una soluzione grandiosa per rendere palese l’umore che si accompagna a ciò che stiamo dicendo».
La pratica, però, insegna che non è tanto semplice: è un attimo essere fraintesi o giudicati male, specie se si pescano, con pigrizia o inconsapevolezza, le icone poco adatte. Già, se il pollice in su è visto come «rude» e «ostile» (sempre il New York Post), la faccia che sorride a malapena non sarebbe da meno. Perciò Broni consiglia di non limitarsi, di prediligere gli emoji «eccessivamente espressivi», con i dentoni gaudenti in bella vista, altrimenti si potrebbe essere tacciati di falsità, di stitichezza empatica. Diciamolo pure: che ansia, non si può più nemmeno scegliere quanto sorridere in chat. C’è di peggio: un sondaggio condotto dalla società di analisi Perspectus Global su un campione di duemila persone tra i 16 e i 29 anni ha scoperto che i ragazzi, in media, di emoji ne usano 76 diversi ogni settimana. E, spietati, hanno già decretato quelli fuori moda, rivelatori dell’età avanzata di chi li utilizza.
Sì, gli emoji da boomer: naturalmente c’è il famigerato pollicione, lo spauracchio assoluto, assieme alla faccia che piange, la scimmietta che si copre gli occhi, il bacio espresso da due labbra zuppe di rossetto. Un po’ da nonna, in effetti. C’è un motivo: «Come avviene con il linguaggio naturale» commenta Seargeant «le generazioni giovani mantengono un atteggiamento altezzoso verso quelle più vecchie. Non appena qualcosa diviene mainstream perde il fascino che aveva per i suoi utilizzatori originari». È accaduto con Facebook: i ragazzi sono stati i primi a entrarci, noi li abbiamo seguiti, loro sono scappati altrove. Vale lo stesso con gli emoji più comuni. Siete pronti per digerire lo choc? Anche il cuore rosso sarebbe da vecchi, come le mani che applaudono. Meglio la fiamma, per ardere di complimenti. I fiori? Non ci provate nemmeno, dinosauri!
Non sorprendiamoci troppo di tanto fermento, gli emoji hanno sempre dimostrato una straordinaria vitalità, il talento di non essere ingabbiati da chi li voleva confinare negli argini del politicamente corretto. L’esempio tipico è l’icona della pistola, sostituita da un’innocua e giocosa arma ad acqua. Un alleggerimento coatto che, alla lunga, non funziona: «Poiché il lessico degli emoji è limitato e non copre affatto determinate aree, come quelle collegate agli aspetti sessuali, le persone li usano in maniera metaforica per estendere il loro significato in questi ambiti». Il metodo coincide con un richiamo morfologico: la pesca è diventata il sinonimo del sedere, la melanzana del pene, le ciliegie… potete arrivarci da soli. Ecco, perlomeno sono naufragate le censure dei demiurghi di faccine e dintorni, un consorzio che coinvolge le grandi compagnie tecnologiche, per tradizione pudiche di fronte a pruriti e derive scottanti. «Nonostante coloro che regolano il mondo degli emoji cerchino di tenersi alla larga da tutto ciò che potrebbe essere considerato un argomento tabù, gli utenti hanno ideato modi per esprimere questi concetti».
C’è una ragione: per quanto a tratti siano criptici, respingenti, ammiccanti, gli emoji sono ormai imprescindibili. Sono tratti culturali digitali, in grado di ispirare film (abbastanza tremendi) e orde di gadget, dai cuscini alle tazze. «Sono diventati una delle forme di espressione individuale più apprezzate in ogni parte del mondo» conferma Kamile Demir di Adobe, la nota azienda di software che ogni anno compila l’«Emoji trend report», frutto di un’indagine su 10 mila utenti da vari angoli del pianeta. L’ultima edizione grondava entusiasmo: il 91 per cento degli intervistati sostiene di riuscire a esprimersi con più facilità grazie agli emoji, il 74 per cento li valuta utili a favorire il rispetto reciproco, il 73 per cento li adotta anche in contesti lavorativi, il 71 per cento li adopera per flirtare: se lui vi manda una melanzana, sappiatelo, non si aspetta che gli prepariate una caponata…
Non ci sono più barriere: «Alcune persone usano gli emoji addirittura per fare le condoglianze o per ostentare un lutto» afferma lo scrittore inglese. «In passato» aggiunge Seargeant «ciò sarebbe sembrato inappropriato perché erano ritenuti frivoli e poco seri. Ma ora che sono sempre più un elemento della vita quotidiana, tale percezione sta cambiando». A patto di non lasciarsi prendere la mano: «In termini di etichetta, la cosa migliore è tenere in considerazione a chi si sta scrivendo, se il contesto è formale e informale, giudicando di volta in volta quello che è appropriato inviare oppure no». Sempre il rapporto di Adobe svela gli emoji più ambigui e indecifrabili: la faccina festaiola col cappello da cowboy, che forse affascinerà i nostalgici americani, quella sorridente ribaltata, che non a caso è la preferita di Seargeant: «Mi piace il fatto che sia un po’ più enigmatica». Mentre di una cosa possiamo essere certi: la prossima volta che ci arriva un messaggio lungo e articolato, evitiamo di ribattere con il pollice in su. Mandiamo piuttosto un cuore (blu, bianco o verde, non rosso, così sembreremo giovani) o, se è troppo come slancio, un sorriso gigante. Non costa nulla e chi lo riceve, di sicuro, non si offenderà.
