Scelsero di mettersi «dalla parte in cui si è più odiati». Sono gli scrittori che, nella Francia occupata dai nazisti, furono accusati di collaborazionismo. Ma le loro ragioni, fame di eroismo e dispendio di sé, sono da riconsiderare. Senza pregiudizi.
«Il gusto del coraggio non è il coraggio, ma il piacere che prova un uomo ad avere coraggio, e più ancora ad averlo che a mostrarlo. Istintivamente, si “getta allo sbaraglio”; va nel punto in cui può essere colpito; si mette dalla parte in cui si è più odiati. È possibile che non ami battersi più di tanto, che ami rischiare; e forse che egli ami sopra ogni altra cosa essere colpito per far vedere a sé stesso e agli altri la propria invulnerabilità». Invulnerabili di sicuro non lo erano, coraggiosi invece sì. Ed è difficile negare che si siano messi «dalla parte in cui si è più odiati». A scrivere queste righe, nel 1940, è Henri de Montherlant, scrittore francese di immensa raffinatezza, uomo di un tempo perduto precipitato chissà come tra il piombo e le fiamme della Seconda guerra mondiale. Le frasi sono incise in un libro intitolato Il solstizio di giugno, ora ripubblicato da Passaggio al bosco con un’introduzione di Claudio Vinti. Si tratta di un volume che contribuirà ad appesantire la croce ferrigna posta sulle spalle di Montherlant (e di molti altri come lui) alla fine del conflitto.
Le lettere scarlatte erano più d’una, tutte quelle che compongono la parola «collaborazionista». E Henri lo fu, anche se il termine non gli rende giustizia. Fa pensare, quella definizione, all’untuoso burocrate, al venduto che si compromette con il signore giunto da lontano per godere di benefici e prebende. Ma la gran parte dei collaborazionisti, o almeno i più affilati tra loro, così non erano affatto. Piuttosto, erano uomini che si ribellavano al materialismo, «fascisti romantici», come li avrebbe definiti Paul Sérant.
Intellettuali che ammirarono il nemico tedesco perché erano a loro volta nemici delle incrostazioni vigliacche della loro patria. Pensavano, in fondo, che la sconfitta della Francia fosse meritata, almeno finché la Francia si riduceva a un cenacolo di mummie.
Nel tedesco vincitore, costoro – pur vinti – trovavano una paradossale speranza di riscossa. Montherlant apparve, sulle prime, perturbato dall’imponenza dell’avversario: «A lungo avevo desiderato di poter vedere in faccia quell’esercito e di sapere quale era il suo comportamento; chi erano quegli uomini che “chiamano Dio il segreto dei boschi”, ai quali andava l’antica gloria di aver odiato il cristianesimo, e che ora avevano la missione di distruggere la morale borghese ed ecclesiastica dalle rive dell’Atlantico fino ai confini della Russia. Sognavamo quelle Panzerdivisionen che dentro di me chiamavo le “divisioni-pantera”…».
Quando poi il tedesco arriva, e schianta la Francia, Henri vi vede qualcosa di fatale, e accoglie la sconfitta: «Per prima cosa niente lagnanze (prima disciplina). Nessun broncio (e anche il tempo dei rimorsi mi sembra ormai passato). Niente opposizionucole o fronde paesane puerili e sordide, con le quali si dà l’illusione o la maschera del patriottismo e che, invece, ne sono un insulto» scrive nel Solstizio. «È prima e durante la battaglia che bisognava cercare di contrastare l’avversario, non dopo. Niente violenza, che potrebbe essere solo verbale, e non c’è niente di più laido della violenza impotente. Per una volta almeno, siamo giocatori leali. Non entriamo nel futuro recalcitrando. Bisogna volgere le spalle e dire sì, di buon grado a ciò che è appena accaduto. Duplice accettazione: della realtà in quanto tale, e poi di un giusto evento: siamo stati sconfitti come più regolarmente non si poteva, e a tutti i livelli. Accettazione. Poi adesione».
Tanti accettarono, tanti aderirono. Menti eccelse, anche. Sempre per citare Montherlant, erano «cavalieri del raro, campioni delle cause perse e di tutte le minoranze, parassiti delle leggi divine e umane». Uomini che vogliono vivere «sempre sopra un parapetto. Non è detto che non si compromettano abbastanza, all’occasione, con quella società che pure provocano, per non essere trattati da eroi, dei quali hanno evidentemente la stoffa. A forza di fare un gioco troppo franco, è piuttosto nella prigione che si riversa un giorno la loro fronda, prigione politica o comune».
Un altro fu Lucien Rebatet, di cui le Edizioni Settecolori hanno appena pubblicato il capolavoro I due stendardi (due robusti volumi con introduzione di Stenio Solinas). Meno noto, Rebatet, anche se forse il più grande per meriti letterari, capace di rinnovare la tradizione del romanzo francese ed europeo, fuggendo dalla piattezza delle avanguardie per restituire la letteratura alla vita e riportare la vita nella letteratura. Entrambe vibreranno di quella carica vitale capace di porre fine alla décadence marchiata dall’esausto materialismo contemporaneo. Tanto riuscì solo – in Inghilterra, in un’altra condizione – a T.S. Eliot, aiutato da un «maledettissimo» come Ezra Pound.
Come ha scritto Simone Paliaga (che di Rebatet ha curato Non si fucila la domenica, edito da Mimesis nel 2018), I due stendardi «trae il titolo dagli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, all’apparenza è la storia di un triangolo amoroso tra amici. Ma, col dipanarsi della storia diventa un libro religioso, un trattato sull’amore che racconta una sorta di conversione sulla strada di Damasco, ma all’incontrario, con l’intento di superare il cristianesimo con i suoi toni paganeggianti e nietzschiani». Sono, in fondo, i toni che usa anche Montherlant, il quale per un po’ fiancheggia il cristianesimo, ma forse soltanto perché gli consente di immergersi nell’etica cavalleresca.
Sì, il richiamo alla cortesia è frequente nell’opera di Henri, e in qualche modo ritorna in tutte le vite dei collaborazionisti, ai quali certo non difetta la «largesse» dei cavalieri, cioè la disponibilità al donarsi, al dispendio di sé, fino all’estremo. Li accusarono di intelligenza col nemico, ed erano colpevoli. Ma forse le loro ragioni non erano abiette.
Un altro monumento dell’epoca, Antoine De Saint-Exupéry, aveva fatto scelte diverse (non collaborò, si trasferì in America), ma condivideva la stessa disposizione d’animo. Comprendeva lo slancio vitale, la fame d’eroismo, la necessità del sacrificio. «Tutti noi esprimiamo, al di sotto delle parole contraddittorie, i medesimi slanci», scriveva (in un articolo raccolto nel volume La frontiera interiore, Medusa edizioni). «Ci dividiamo sui metodi che sono il frutto dei nostri ragionamenti, non sugli obiettivi. E partiamo in guerra gli uni contro gli altri verso le medesime terre promesse».
Eroico dono di sé: «Saint-Ex» sparì nel cielo nel 1944. Sul versante opposto (tra i «fascisti»), ci fu appena più sangue: Pierre Drieu La Rochelle, altro sublime romanziere, si toglierà la vita nel 1945. Robert Brasillach, nello stesso anno, verrà fucilato, nonostante intellettuali di ogni colore si fossero mossi in sua difesa. Un po’ meglio andrà a Louis-Ferdinand Céline. A lui diedero una condanna a vita: non alla prigione, bensì alla meschinità accesa qua e là dal livore (ma che romanzi, tra uno schizzo di bile e l’altro).
Tra i vari sfregi, a Céline toccò il saccheggio della casa in rue Girardon, a Montmartre. I resistenti francesi gli portarono via, tra le altre cose, pagine e pagine di manoscritti. Che ora, però, sono misteriosamente riemersi dall’ombra. Li aveva conservati un comunista, lettore di Libération, che ha deciso di renderli all’umanità soltanto nel 2019. Parliamo di un patrimonio inestimabile: il manoscritto di 600 pagine di Casse-Pipe, il romanzo inedito Londres, il manoscritto di Morte a credito. E poi scritti, foto, documenti di vario genere. Carta preziosa che andrà ad alimentare il mito.
Tocca supporre che la stessa sorte non toccherà, purtroppo, a Rebatet. Come ha notato Simone Paliaga, quest’ultimo non è stato abbastanza sulfureo per essere un maledetto di tendenza. Fece la galera, lo inchiodarono a un libro gonfio di furore intitolato Les décombres (1942) in cui certo inveiva anche contro gli ebrei, ma soprattutto contro la Francia e i francesi.
Però Céline gli aveva già rubato la scena. Anche se, secondo il celebre critico George Steiner, I due stendardi è «il più grande romanzo scritto in Francia dai tempi di Proust». Un libro che «vale tutti quelli di Céline, a eccezione forse del Viaggio, ed è uno dei capolavori segreti della letteratura moderna». Rebatet morì il 24 agosto 1972. Poco meno di un mese dopo, Henri de Montherlant si tolse la vita.
