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Jerry Calà: «La mia comicità anni Ottanta oggi mi spedirebbe in galera»

Jerry Calà: «La mia comicità anni Ottanta oggi mi spedirebbe in galera»

Tra passato e attualità, tra passioni e manie, tra amori che restano e giudizi sui colleghi ora sulle scene, parla l’attore che ha raccontato nei suoi film il Paese in vacanza. Con un po’ di rimpianto per la libera strafottenza perduta.


il Paese in vacanza. Con un po’ di rimpianto per la libera strafottenza perduta.Sarà vittima di un sequestro di persona, in autunno. A Napoli, città che ama e dove nel marzo scorso gli hanno salvato la vita dopo un infarto. «Il fatto è che nessuno dei miei amici e familiari pagherà il riscatto. Come se dicessero: tenetevelo, di un simile cazzaro ne facciamo a meno…». Jerry Calà, 72 anni, scherza sul suo prossimo film, il cui titolo è – con vago riferimento a Chi ha incastrato Roger Rabbit Chi ha rapito Jerry Calà. «Ci sarà da sbellicarsi dalle risate. A un certo punto divento io il capo della banda dei miei rapitori, non saprebbero altrimenti che pesci prendere. Il film, che interpreto e dirigo, è anche un omaggio a Napoli, stato nello stato, con suoi artisti, musicisti, attori. Esce in ottobre o novembre, ma potrebbe essere anche nel mazzo delle uscite natalizie, insomma tra i cinepanettoni, vedremo».

Cinquanta e più anni di carriera, un attacco di cuore, e non è ancora arrivato il momento di tirare i remi in barca?

Perché dovrei? Ora sono in Sardegna, nella Sardegna dei vipponi che frequento da quando non se la filava nessuno. Faccio il gommonauta, tra la Maddalena, Caprera, la Corsica. Mi riposo un po’. Mi faccio 100-120 serate all’anno con il mio show in teatri, club e piazze, anche con 15 mila persone ad applaudirmi.

Pure giovani: Jerry Calà non piace solo ai «boomers».

Vengono a sentirmi i diciottenni, con o senza i papà e le mamme. Se poi intono Maracaibo tutti si alzano, fanno la hola e via con il trenino, come a Capodanno. Non mi meraviglio: due ore di comicità, con i miei tormentoni, a partire da «libidine, doppia libidine…», e le musiche di film come Sapore di mare, non sono da buttare via.

Un tuffo nell’Italia da bere degli anni Ottanta. Che differenza c’è con oggi?

Oggi con la musica elettronica i giovani in discoteca non comunicano. Come in pizzeria: se vedi due ragazzi al tavolo, lei guarda il cellulare, lui pure, persi nei social. Altro che romantiche lumate negli occhi.

Tutta qua la differenza?

Se parliamo di comicità ai tempi eravamo più critici, più liberi, più strafottenti. Oggi il politicamente corretto spegne ogni ardore. Certe cose fatte allora, adesso spedirebbe diritto in galera.

Lei si chiama Calogero Alessandro Augusto ed è nato a Catania, ma le sue città adottive sono Milano e Verona.

A Catania ho vissuto da piccolissimo, fino ai 15 anni ci passavo un paio di mesi ogni estate. Capisco il siciliano, con un po’ di impegno potrei addirittura parlarlo. Mio padre, ferroviere, si trasferì a Milano. Abitavamo vicino a via Pasteur, zona Loreto, quartiere pop. Ero un ragazzo tosto, metropolitano. Vivevo per strada, o all’oratorio, che tutto era meno che un luogo di preghiera. Quando la mia famiglia si trasferì per lavoro a Verona mi sembrò di passare da New York alla Milwaukee di Happy Days. Cosa facevano tutti quei ragazzi ordinati, precisi, educati? Si facevano le festine, si seguiva la moda. A Milano eravamo più scrausi.

Poi scoppiò l’amore per Verona.

Sì. Era una sorta di Liverpool italiana, con molti complessini beat e rock. Mi ambientai rapidamente. Lì si accese la scintilla dello spettacolo. Al liceo classico Scipione Maffei c’era la filodrammatica, mettevamo in scena cose originali, di satira verso i professori, anche.

Jerry Calà era un pessimo studente?

Al contrario, prendevo otto in greco e latino. Poi magari mi bocciavano in storia e geografia. Certo ero un battutista, i professori mi ispiravano, i compagni ridevano come matti. Papà mi voleva o medico o ingegnere, ma capii che lo spettacolo e la musica sarebbero stati il mio futuro.

E siamo ai Gatti di Vicolo Miracoli.

Con Franco Oppini, Nini Salerno, Umberto Smaila ci facemmo subito notare, con il cabaret e brani come Verona Beat. Il vero successo fu a Milano, dove tornai a vivere. Per merito di Cino Tortorella.

Il mago Zurlì, come nelle favole.

Già. Con i Gatti lasciai Verona per Roma, capitale del cinema. In attesa di ingaggi cantavamo nelle trattorie per mettere qualche cacio e pepe sotto i denti. Ci vede il mago Zurlì, e dice: che cacchio fate qui? Il vostro posto è il Derby a Milano, parlo con il patron e vi ci porto io. Il 13 gennaio 1971 eccoci in locandina. La serata era divisa con Cochi e Renato, Enzo Jannacci, Paolo Villaggio. Da far tremare le vene ai polsi. Ognuno aveva una ventina di minuti. Avemmo un successo clamoroso. Il Derby era una vetrina pazzesca. Nel foyer ci si vendeva anche le battute. Ogni comico ne passava qualcuna più adatta ai colleghi, in cambio di 500 lire, un pacchetto di sigarette, un gelato, un biglietto del cinema.

Ma tiravate comunque la cinghia.

Nooo… Nel 1971 guadagnavo anche 10 mila lire al giorno, ero un signore. Si mangiava con 700 lire, a Milano, mille se proprio volevi strafogarti.

È il momento di parlare di un grande amore: Mara Venier.

La conobbi quando mi trasferii a Roma, per lavorare nel cinema. Lasciai con la morte nel cuore i Gatti: Carlo Vanzina mi disse che bucavo lo schermo e i produttori mi avevano messo gli occhi addosso, volevano solo me, dovevo decidermi. Così, nel 1982, dopo due o tre film di successo, girai il mio primo titolo da protagonista, diretto da Marco Risi: Vado a vivere da solo. Allora era un’aspirazione dei ragazzi, oggi restano in casa fino a trent’anni.

Abbiamo perso Mara…

Lei in quel film aveva una piccola parte, che venne tagliata al montaggio. Forse di lei è rimasto un secondo. Ma la freccia era scoccata, ci mettemmo insieme. Un amore importante, ci siamo anche sposati, che con grande intelligenza abbiamo saputo trasformare in solidissima amicizia, senza i rancori che spesso seguono una separazione. E senza che i nostri attuali partner soffrano di gelosie retroattive. Siamo una famiglia allargata. Mara mi vuole bene, ha ottimi rapporti con mia moglie Bettina e mio figlio Johnny, e io con suo marito Nicola e i suoi figli Elisabetta e Paolo. Nicola Carraro l’ho addirittura conosciuto prima di Mara, è stato il primo produttore a farmi un contratto, per il film I fichissimi con Diego Abatantuono e regia di Carlo Vanzina.

Come re della commedia italiana, avrebbe potuto montarsi la testa, perfino rovinarsi tra donne, gioco, auto, barche da sogno…

Non ho perso la testa grazie a Mara. Da donna intelligente, mi teneva con i piedi per terra. Rifiutava di lavorare, diceva che andavo seguito e che in famiglia bastava uno a tirare la carretta. Tanto è vero che la sua sfolgorante carriera è cominciata quando tra noi è finita. Ma penso che mi abbia aiutato anche la mia formazione. Gli studi classici aiutano a relativizzare quel che succede, a tenere sempre la barra dritta pur nei clamori del successo.

Lei ha fatto tanti film, ma poca televisione. Come mai?

I miei film venivano definiti «instant movie», non piacevano ai critici, ti pareva, ma fotografavano un fenomeno e credo che ancora oggi abbiano molto da dire sulla società di quegli anni. Forse più di film seri, intellettuali, nati con l’intento di decifrare il periodo. Basti pensare a Sapore di mare, insuperato nel descrivere vacanze in cui si rispecchiano ancora, con nostalgia, generazioni di italiani. O Il ragazzo del Pony Express, che raccontava una novità del mondo lavorativo e precario giovanile. La tv? Sì, ne ho fatto poca, ma rivoluzionaria.

Cioè?

Tutti citano il Drive In di Antonio Ricci come pietra miliare della nuova televisione. Ma io ho partecipato con i Gatti di Vicolo Miracoli a Non Stop di Enzo Trapani, prima trasmissione veramente di rottura, sulla Rete 1 della Rai, andata in onda nel 1977, ben prima di Drive In. C’eravamo noi, i Giancattivi, Carlo Verdone, Francesco Nuti, Zuzzurro e Gaspare e un’infinità di cantanti e musicisti. Una cosa memorabile.

Del panorama attuale chi le piace?

Checco Zalone, uno che se ne frega del politicamente corretto e continua la tradizione nostra: sfrenato, diretto. Poi Angelo Pintus e Barbara Foria. In tv imita Myrta Merlino e Serena Bortone, un vero spasso, e ha una parte nel mio film in uscita. È la sorella di uno che organizza il mio rapimento.

Ma lei pagherebbe un riscatto per sé stesso?

Per carità, neanche sotto tortura.

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