Uno dei più brillanti autori italiani che alterna in modo originale poesia, prosa, traduzioni. E, senza far parte di «cordate», ha vinto con i suoi versi uno dei rari premi italiani di effettiva sostanza. Ma lui dice: «L’importante è non prendersi troppo sul serio».
C’è un’Italia con «Pasolini che stava per morire, Mina che cantava Sei grande grande»; c’è «la vita che succede / come alla tele, si fulmina un led /e sei costretto a buttarla»; c’è anche «quel dannato/ senso dell’umorismo della Natura», che crea esseri luminosi come la neonata Lucia «e poi questo Covid-19»… A leggere i versi di Flavio Santi si fa pace con la poesia: non è quella incomprensibile, respingente, inflitta a scuola e che ci si augura di non incontrare più. Al contrario, ti parla. Sarà perché dietro questa Quanti, una raccolta smilza che fa cortocircuiti e scintille, l’autore si è costruito con romanzi dal passo autobiografico, gialli gustosi ambientati nel Friuli delle sue origini e traduzioni, tra cui «classici» come Melville o un felicissimo Dracula di Bram Stoker. E, ancora, insegna ai giovani universitari ad aver a che fare e usare le parole.
Uno scrittore a tutto tondo che però, a 48 anni, non ha l’ansia di pubblicare («Se dopo questo libro non mi venisse più una poesia, andrebbe bene così: vorrebbe dire che ho detto quel che dovevo»). Se lo può permettere: ha appena vinto il Premio Viareggio-Rèpaci, che per questo genere letterario è importante come lo Strega, ma meno imbevuto di mondanità. Vive nella campagna intorno a Pavia, tra campi coltivati a mais e riso («Ho trovato questa casa a due piani e ho riprodotto la mia bolla di Friuli, con tanto di orto e alberi da frutta da curare»). A fargli i nomi di colleghi che pontificano sempre dai grandi giornali, strizza un poco gli occhi dietro le lenti – se ne intuisce l’espressione oltre la mascherina – e risponde semplice: «Se vuoi fare il mestiere dello scrittore non c’è tempo per altro: devi scrivere».
E che senso ha scrivere ancora poesia?
Di sicuro serve a sviluppare senso critico nell’autore e, forse, può aiutare chi se la trova davanti. Ti confronti con quello che sei davvero, con il mondo. Più di ogni altra forma letteraria per me ha anche bisogno di un lettore. Perciò molti miei testi della raccolta si chiudono con i tre puntini di sospensione. Il frammento è una porta aperta: può continuare – o meno – nel pensiero di chi lo ha appena letto. Io poi detesto le classificazioni, le barriere snob, le gerarchie letterarie, prima la lirica, secondo il romanzo… Trovi poesia nelle canzoni – motivo per cui credo abbiamo dato il Nobel a Bob Dylan. Ce n’è nel rap come in uno slogan pubblicitario. La poesia contamina e questa cosa incuriosisce i giovani. Certo non puoi avvicinarli ai versi con il 5 maggio di Manzoni.
Nei suoi versi si trova spesso «cronaca del presente»: il terrorista nero Giusva Fioravanti e la scomparsa di Emanuela Orlandi, l’attentatore delle Torri gemelle Mohamed Atta e Moana Pozzi pornostar malinconica…
Voglio che ci sia testimonianza del mio tempo. Siamo fatti di questo e mi dà l’idea di una condivisione con il mio pubblico, che si può identificare in certi eventi vissuti. Tra dieci anni forse tanti dettagli non si coglieranno subito. Vabbè, se uno è proprio curioso ci sarà comunque internet.
Il giallo è il genere più di moda, oggi. Anche lei ne ha scritti due con il protagonista Drago Furlan, ispettore grosso, ironico e acutissimo, che si muove in un Friuli in bilico tra pezzi di storia e contemporaneità.
Il giallo mi serve a raccontare il paesaggio interiore di una civiltà contadina che forse non esiste neanche più. Ma è il mio mondo, con una lingua diversa dall’italiano, memorie, immagini del passato che ci sono stampate nella mente e danno consistenza a ognuno di noi. Per me sono il bagno nelle acque gelide del Tagliamento e le osterie, la partita della domenica quando tutta la famiglia, dal nonno al nipote, va ancora allo stadio a vedere l’Udinese. Nel fazzoletto di terra del Friuli inoltre c’è una stratificazione incredibile: la Mitteleuropa accanto ai Balcani, l’avanzata dei Turchi verso Vienna e una frontiera dove avverti il passaggio continuo tra Occidente e Oriente.
Storicamente, però, tantissimi friulani sono emigrati.
Certo, miseria e storia: la lontananza ci è connaturata e si trovano friulani dall’Argentina all’Australia. In Patagonia ci sono piccole comunità dove si parla un friulano «fossile», perché là è rimasto cristallizzato. Oppure, in America, c’è la storia straordinaria di Luigi Del Bianco: la sua famiglia veniva da Pordenone e lui era il capo-scalpellino della squadra che ha scolpito le sculture dei testoni dei presidenti americani nel Monte Rushmore… L’abbandono forzato è il rovescio della medaglia di questo legame profondo con la nostra terra.
Il suo primo ricordo?
Spiaggia di Grado, al tramonto. Io, 6-7 anni, che cammino un po’ brillo con un bicchiere di carta con del vino bianco. Vino e acciughe. Felice iniziazione all’alcol. Ogni grande scrittore, si dice, ha un’infanzia infelice. La mia è stata bellissima: passata a correre in campagna a piedi scalzi, d’estate. Pazienza: non sarò un grande scrittore.
Di sicuro va orgoglioso delle sue traduzioni.
È una stella, la traduzione. Un concentrato di energia. È lettura, interpretazione, resa del testo, tutto insieme. È un’«iperscrittura». Finito Bartleby lo scrivano di Melville mi sono detto: «Ecco, ora mi può cadere una tegola in testa che sono contento così!». In Italia ci sarebbe da fare un grande lavoro di recisione sui classici stranieri, tradotti spesso con un unico registro. Penso alla mia esperienza con Dracula, che è un romanzo modernissimo. Nel testo, per esempio, ci sono i telegrammi; ogni personaggio – Dracula, il cacciatore di vampiri Van Helsing, un avvocato, un operaio – parla con il linguaggio della sua classe sociale. Io ho provato a riprodurre una ricchezza simile. E questo libro ha un’altra caratteristica stupenda: nella sua prima edizione del 1897 c’era una copertina… gialla! Si può considerare il primo «giallo» della letteratura.
Si riesce a vivere oggi facendo «soltanto» lo scrittore?
Con prosa e traduzione si campa decentemente. Ma lavori tutto il giorno e comunque, a tradurre, devi essere rapido. Non puoi permetterti di stare un anno su un libro. Invece, su un verso, io ci potrei stare una vita! Ho questo passaggio di Pessoa, che mette insieme la ragione e «il treno a tiranti/ Chiamato cuore». In Quanti l’ho reso così, ma non ero soddisfatto. Ora, forse, ho trovato le parole giuste…
Zucchine, pomodori, cachi. Perché lei si dedica all’orto?
Perché vivo in tensione continua tra lo stare incollato alla sedia e il «fuori», la natura. E l’orto ha pure un risvolto filosofico.
Scusi?
Pianti il seme e lo vedi crescere. Ci vuole il suo tempo, come la buona scrittura. «Agricoltura» e «cultura», sono anche parole con la stessa radice. L’orto ti allena anche a cambiare prospettiva. Quando vai a cogliere frutta o verdura, spesso non riesci proprio a vederle, sulla pianta. Come se si nascondessero. Allora devi spostarti: solo con un altro angolo di visuale le scovi. È una lezione.
A che cosa sta lavorando?
Sto traducendo, un po’ da incosciente, Robinson Crusoe: bellissimo. E poi ho questo abbozzo di romanzo storico ambientato tra Istanbul e il Friuli. Il confine che ti esclude ma ti affascina per quel che sta al di là. Come quando, da bambino, c’era vicina ma irraggiungibile la Jugoslavia.
Quanto conta vincere il «Viareggio-Rèpaci 2021»?
Non ti cambia la vita, ma fa piacere. L’hanno vinto tre friulani. Il primo è stato Umberto Saba e ora ci sarei io…
Chi non sopporta tra i colleghi?
Mah. Certi giallisti che sfornano un libro ogni sei mesi e non sono neanche Simenon. Come fanno? Io massimo, nei romanzi, 2-3 pagine al giorno!
In un’altra sua raccolta si legge delle avventure di un clone di Leopardi. In Quanti c’è il sistema solare che tra 5 miliardi di anni collasserà e «Tutto finirà in un enorme scarico di lavandino». La cifra è comunque l’ironia, in poesia o prosa.
Non ci devono essere gli «intoccabili». Quando scrivo, mi devo divertire. D’altra parte, in latino lusus – che sarebbe il componimento poetico – vuol dire anche «gioco». L’importante è non prendersi troppo sul serio. E continuare a giocare con le parole. Per dire, qualche volta, cose serie.
