Gian Enzo Sperone, insofferente a ogni enfasi, è uno dei più importanti – e influenti – galleristi al mondo. Capace di spaziare tra testimonianze artistiche «dal 350 a.C. alla settimana scorsa». Il Mart di Rovereto presenta 400 opere raccolte durante una vita: dall’archeologia romana alla pittura seicentesca di Bernardo Strozzi, da Pablo Picasso ad Andy Warhol.
Il vorace collezionismo di Gian Enzo Sperone amalgama epoche, stili, autori, in una sfrenata corsa attraverso i secoli: Andy Warhol e Ippolito Caffi, Giacomo Balla e il Piccio, i trittici a fondo oro e le cromie di Fortunato Depero, la scultura romana e l’artigianalità di Bertozzi & Casoni. Il sottotitolo del volume Gian Enzo Sperone. Dealer/Collector, edito nel 2019 da Allemandi, indicava «Dal 350 a.C. alla settimana scorsa». La mostra del Mart tenterà di riprodurre questa vertigine temporale: è questo l’intento. Ciò che era, nella sua dimensione di gallerista, l’iper-contemporaneità di Sperone, si è proiettata in una ricerca collezionistica che ha reso contemporaneo anche l’antico. Sperone collezionista ha compreso che un’opera del IV secolo avanti Cristo non è antica, è moderna. È lo schema che era già nella mente di Gino De Dominicis che, nei suoi paradossi, diceva che gli antichi siamo noi: un artista di 2.500 anni fa, ha esattamente 2.500 anni in meno di noi, è lui il più giovane. La formula è quella dei «nani sulle spalle dei giganti», noi contemporanei abbiamo più anni di Fidia o di un qualsiasi maestro del passato. Loro sono all’inizio di un cammino che è arrivato fino all’oggi. In quest’ottica di rovesciamento temporale, possiamo immaginare il tracciato espositivo al Mart addirittura capovolto, dalla settimana scorsa al 350 a.C. Del resto questo è stato il reale percorso di Sperone.
Personaggio sorprendente, ha vissuto da protagonista dell’arte contemporanea, mercante, amico, compagno di strada degli artisti. Il suo punto di partenza, negli anni Sessanta, è di assoluta sintonia, di perfetta sincronia con il presente artistico. Sperone, che apre la sua prima galleria a Torino, nel 1963, con una mostra di Roy Lichtenstein, stabilisce rapporti con il pensiero più vivo di quel tempo, anche con collezionisti come Giuseppe Panza di Biumo, che era un modello di collezionista tutto volto all’attualità istantanea. Poi dalla partenza torinese, arriveranno gallerie a Milano, a Roma, e a New York, dove tuttora lavora. Il suo rapporto con il presente lo vede come un attore attivo, un motore della produzione artistica. Come Leo Castelli, può essere ritenuto uno di quei galleristi che non sono stati semplicemente dei mercanti, ma animatori militanti della scena contemporanea, in un dialogo costante con gli artisti, pop, poveristi, minimalisti, concettuali, di cui diventa promotore. Altro passaggio importante per Sperone, sarà l’incontro con Julian Schnabel, un pittore a tutto tondo, un artista compiuto, un classico. Non un creatore di facili formule, ma un inventore di energia che si proietta nell’immagine.
La solida conoscenza della storia dell’arte alimenta l’appassionato collezionismo di Sperone, che ha molte affinità con il mio. Io ho cominciato dall’antico e poi sono arrivato, da battitore libero, a individuare alcuni artisti contemporanei, come Domenico Gnoli, Antonio López García, Gianfranco Ferroni, Eugène Berman fuori da ogni rotta, a lungo sfuggiti al mercato come ai critici. Sperone invece ha compiuto il percorso classico del gallerista del suo tempo, ma coltivando segretamente la sua passione per l’antico. Sono percorsi simmetrici anche se capovolti. Quando ero ragazzo andavo a visitare le gallerie di Sperone e non avrei mai immaginato che potesse in futuro occuparsi di Giovanni Paolo Panini o di autori fiorentini del Seicento, di tutto un mondo che si trovava su un binario molto diverso dal suo. Le scelte collezionistiche di Sperone sono mosse dalla scoperta che c’è più novità nel passato che nel presente. È quasi una sorta di contrappasso: trovare una scultura o un dipinto di un pittore del Cinquecento che è più originale di una creazione contemporanea. Nel mio caso, invece, il collezionare nasce da un atto critico. Acquisto un’opera, spesso, perché ho visto quello che gli altri non hanno colto e riconosciuto. Se un’opera è ben scelta, ogni giorno rinnova il piacere della scoperta.
Nel volume dedicato alla sua collezione avevo scelto di parlare del Davide e Golia del Cavalier d’Arpino, opera appartenuta, nell’Ottocento, alla raccolta del pittore Vincenzo Camuccini. Desideravo quel quadro, l’ha comprato lui, gliel’avrei invidiato in quanto magnifico, adesso sarebbe utile averlo ad Arpino, dato che ne sono sindaco. Quella prefazione è stata quasi una premonizione di questa mostra Ha voluto dirsi un uomo senza qualità. Io invece gli riconosco diverse qualità. È un uomo elegante, scettico, poco retorico, poco mercante. O forse mercante così abile, da innescare un sottile percorso psicologico di sfida. Non vende, ti concede di acquistare qualcosa di così desiderabile da divenire oggetto di conquista. La sua è una «caccia al tesoro», come suggerisce il sottotitolo del mio ultimo libro «Scoperte e rivelazioni». Collezionando, e attribuendo a sé stessi una dimensione spirituale molto alta, è come se si volesse salvare ciò che si ama. Più che un rifugio per sé, il collezionista costruisce un rifugio per le opere, dona loro una casa sicura. È come l’adozione di un bambino, che va protetto e tenuto lontano dalla strada. Il mercato è la strada. Il non collezionista può acquistare quadri e sculture solo per motivi di opportunismo o di opportunità, mentre il vero collezionista le vuole proteggere, le vuole tutelare. Occorrerà pensare al futuro della collezione Sperone. Con la mostra possiamo intanto vedere quale forma assume nello spazio museale del Mart. Lavorando al titolo dell’esposizione, siano stati divisi fra Marcel Proust e Robert Musil. Io volevo «Alla ricerca del tempo perduto», Sperone propendeva per «L’uomo senza qualità». Alla fine ha avuto la meglio. Se in futuro Sperone desiderasse legare la sua collezione a un museo, anche nel ruolo di sottosegretario alla Cultura, potrei valutare con lui la questione.
Proprio da Sperone, peraltro, alla Biennale di Firenze dello scorso anno, acquistai per il Mart un magnifico gesso di Felice Casorati, un bassorilievo, quasi un Adolfo Wildt, che era una porzione del Teatrino di Riccardo Gualino. Mi pare che il collezionismo di Sperone abbia qualche affinità anche con quello di Gualino, che nutriva pari attenzione per l’arte contemporanea e per l’antica. Perché l’autentico stimolo al collezionismo non è il voler possedere lavori di un determinato artista, o di un genere o di un’epoca, bensì cercare la qualità dell’invenzione in ogni artista, in ogni secolo. Da qui l’analogia di Sperone con Gualino, che partiva da Cimabue e dai pittori del Trecento per arrivare fino ai suoi contemporanei. Sperone, per molti versi, con la sua partenza dal contemporaneo, è un caso unico. Certamente esistono altri ottimi collezionisti, come Fabrizio Lemme, che ha distribuito una parte della sua raccolta, donando o vendendo, a musei come il Louvre o a Palazzo Chigi ad Ariccia, o il museo di palazzo Cipolla a Roma. Ma penso anche a Federico Cerruti, Amedeo Lia, Luigi Koelliker. Sperone una volta ha detto: «Io sono la mia collezione». Il corpo di Sperone è sicuramente composto delle opere in cui si è rispecchiato. Ecco il suo specchio.